Venerdì, 18 Gennaio 2013 09:32

'HUMANET': Pier Francesco Mastroberti

Una interessante mostra delle opere di Pier Francesco Mastroberti si è tenuta il 18 gennaio nella sede del Circolo Lucano "Giustino Fortunato" a Salerno.  

Come ho avuto occasione di rilevare nel presentare in quella sede l’esposizione,  Mastroberti è autore di elevato livello artistico, versatile ma schivo e riservato che dalle sculture in bronzo o terracotta, di formato minimale o di formato monumentale, ai Presepi in garza e gesso, ai pastelli, agli olî, alle caricature, manifesta sempre con garbo, ironia e profondità la sua acuta sensibilità e intelligenza in una produzione che, per diversità e varietà, è una sorta di mare magnum.

 

                                                                                               PIER FRANCESCO MASTROBERTI: Sant’Angelo Le Fratte – pastello a olio - 1988


Proponendo un filo rosso interpretativo che corre tra le varie opere, ci piace segnalare la scultura Humanet, in rete di metallo e gesso che già nel materiale della sua composizione rivela come l'Autore segnali il pericolo di una condizione generale nella quale il principio dominante è la rete, internet, dall'enorme capacità comunicativa costituita da una immensa regnatela fondata da migliaia di reti di computer sparse in tutto il mondo e collegate tra loro con le quali possiamo metterci in contatto. Probabilmente proprio la suddetta incommensurabile portata comunicativa che consente la relazione con ogni persona del pianeta ha fagocitato le energie, gli interessi, le attività dei soggetti fino a sostituirsi troppe volte alla vita reale.


PIER FRANCESCO MASTROBERTI: Humanet – rete metallica e gesso – 2008


Ecco allora il senso di Humanet che presenta l'umanità, un uomo e una donna, non soltanto soggetti alla stilizzazione artistica, ma addirittura a un processo di rarefazione che vede la scomparsa della struttura squisitamente umana delle ossa, dei muscoli, delle vene, della pelle e della conseguente definizione formale immediatamente riconoscibile del corpo umano. Al suo posto, la rete di 'computeriana' memoria avvolge e informa le persone, lasciando intuire la loro originaria dimensione. Della loro umanità sembra voler parlare il colore rosa cangiante che in tonalità a volte accese fino al violaceo, a volte delicatamente pastello, evoca la delicatezza della pelle, la tenerezza del corpo, il nascosto fluire del sangue.
Humanet è stato realizzato da Mastroberti nel 2008, ma già quattro anni prima il Nostro aveva creato la scultura Cavallo, un tema a lui molto caro al quale ha dedicato da sempre disegni e sculture in cui veniva alla luce la vitalità e l'aristocrazia dell'animale, sia che lo rappresentasse fermo, o in movimento, o durante il corteggiamento.L'opera, anch'essa in rete di metallo e gesso, sembrava preannunciare il pericolo di una progressiva perdita della vitalità specifica degli esseri della Creazione.


                                                                                                      PIER FRANCESCO MASTROBExRTI: Cavallo – rete metallica e gesso - 2004


Benchè nella scultura sia ancora pienamente riconoscibile il soggetto-cavallo, l'opera unisce l'espressività della rarefazione che investe la struttura ossea e corporea, con la positura del corpo dell'animale, fortemente significante nella lunga curva che partendo dal dorso, continua nel collo e nella testa piegandosi senza energia in direzione della terra, dando luogo ad un'opera d'arte dalla valenza significativa pienamente comunicativa.


Non diversamente, come ebbi a scrivere, “la pennellata fluida e sicura del nostro Autore dà vita ai Vecchi, avvolti in ampi e informi pastrani, quasi a mimetizzarsi e difendersi di fronte agli insulti del tempo e dell’esistenza. Amaramente curvi e rassegnati, o da soli seduti su una panchina, o serrati gli uni agli altri a cercare conforto nella comune sorte, invocano muti e con pudore uno sfiorare lieve di parola che rompa l’incantata prigione dei ricordi.

PIER FRANCESCO MASTROBERTI: Vecchi – olio su tela - 1990


La valenza evocativa dei Vecchi di Mastroberti è accentuata dai colori che l’Autore sceglie per rappresentarli: i bruni sordi, le ocre, i verdi terrosi” (Adelaide Trabucco, Presentazione dei dipinti e delle sculture di Pier Francesco Mastroberti, 1998). È la silente e intensa denuncia che riguarda la condizione di solitudine e fragilità di una fase vitale particolarmente soggetta al misconoscimento della sua ricchezza esperienziale che diventa sapienziale.

 



PIER FRANCESCO MASTROBERTI: Presepe. Pulcinella acquaiolo – garza e gesso - 2008


Una sapienza nascosta che traspare anche nella figura di Pulcinella, alla quale dedica tante sculture che immediatamente attraggono per la popolarità della maschera napoletana la quale rivela però nell’interpretazione di Mastroberti una drammaticità che riscatta e supera l’originario carattere rinunciatario e disfattista del personaggio teatrale napoletano e trattiene l’interesse dell’osservatore su un soggetto troppo famoso per non rischiare di essere 'bruciato'. “Le braccia chiuse al petto, le mani nascoste nelle larghe maniche a sottrarre alla vista il loro spasmodico contrarsi, il dorso incurvato a difendere il segreto delle ferite non dette. La celebre maschera nera, dal naso adunco di uccello rapace, diventa protezione e difesa di chi si cela per non essere ancora colpito, mentre la bocca rimane aperta nel grido e nel sorriso della pena, rifiutata e accolta” (Adelaide Trabucco, Ivi).
Non sembri irriverente l’accostamento, ma quel grido fa affiorare alla mente di chi scrive la sensibilità dell’Autore verso il tema del Crocifisso, interpretato svariate volte secondo iconografie diverse, ma sempre personali, tese a esprimere differenti momenti topici della Passio. L’interpretazione senz’altro più drammatica realizzata da Mastroberti si ispira all’iconografia del Christus Dolorosus e vede il Figlio di Dio volgere il capo verso l’alto e gridare a voce urlata al Padre la sua domanda di senso e di soccorso. Un grido che è urlo e pianto, invocazione e denuncia per le ferite e le sopraffazioni, i tradimenti e le delusioni.

 

PIER FRANCESCO MASTROBERTI: Il grido - bronzo – 1999


Un grido che è sempre forma nascosta della Caritas, del Figlio di Dio che se avesse voluto sarebbe potuto scendere dalla croce, ma che ha liberamente accettato di morire sentendosi abbandonato da tutti, perfino dal Padre, perché “Colui che non aveva conosciuto peccato, Dio lo trattò da peccato in nostro favore” (2 Cor 5, 21).


Salerno, 2013
 


Con preghiera di citare la fonte in caso di utilizzazione del testo per motivi di studio. 

 


Il libro di Adelaide Trabucco è frutto di prolungate e scrupolose ricerche condotte nell’Archivio Parrocchiale della Chiesa S. Giovanni Evangelista del borgo medievale fortificato di Chiauci, in Molise. Lo studio documenta la presenza più che millenaria della fattiva comunità della Terra Clavicorum, la Terra delle Chiavi, le sue antiche vicende storiche, le sue complesse vicissitudini, la fede, l’iniziativa e la creatività, non soltanto artistica, che hanno caratterizzato e sorretto  i suoi abitanti.

Il testo, pubblicato nell'agosto 2012, è accompagnato dalla Prefazione del Vescovo di Trivento, S. E. Domenico Angelo Scotti,  e dalla Presentazione di mons. Domenico Antonio Fazioli, Vicario Generale della Diocesi.

 Il libro, in formato A/4, consta di 256 pagine ed è accompagnato da un ricco apparato iconografico volto non soltanto a confermare i contenuti della ricerca, ma anche a comunicare attraverso le immagini quanto non sempre le parole sono capaci di esprimere.


Riportiamo in questa sede la Prefazione del Vescovo, S. E. Domenico Angelo Scotti:

 

 

Grazie di cuore all’autrice, la professoressa Adelaide Trabucco, che è stata proprio tanto brava nel raccontare, descrivere e far conoscere il frutto delle sue lunghe e minuziose ricerche su Chiauci, comunità veramente bella ed esemplare della nostra Diocesi.

 

Queste pagine, coinvolgenti e precise, hanno il segreto dell’incantevole e del fascinoso, cosa che ti costringe, una volta iniziata la lettura, a continuare o riprenderla immediatamente, se interrotta, tanto grande è il desiderio indotto per gustarne tutto il piacere che promana dalle opere d’arte descrittevi.

 

In un tempo come il nostro, nel quale sempre più forte è l’esigenza di riscoprire e rivalutare la propria identità e l’appartenenza ad una precisa comunità locale, questo testo è un esempio concreto di una testimonianza vera ed autentica di spiritualità attuale e feconda.

 

Ben vengano sussidi come questo per divulgare la nostra antica storia, le vicende passate e la fede che ha alimentato, sostenuto e illuminato la vita quotidiana dei nostri antenati, quelli stessi che ci hanno lasciato esempi così belli di arte e di religiosità.

 

Sono contento che questo libro esca proprio alla vigilia dell’anno della fede proclamato da papa Benedetto XVI: il futuro della religione per le nostre popolazioni ci sarà sempre perché è fondato e radicato su un passato ricco delle convinzioni profonde e dei sacrifici enormi fatti da coloro che ci hanno preceduto.

 

Plaudo e benedico l’iniziativa della professoressa Adelaide, nipote di una delle Presidenti diocesane di Azione Cattolica dello scorso secolo, e invito gli altri studiosi, innamorati delle polverose carte, a fare altrettanto per i propri paesi, per farli emergere splendidi e vitali agli occhi delle nuove generazioni. 

 

 

† Domenico Angelo Scotti

 

                                                                                                   Vescovo di Trivento 

 

 

 

Ancora, riportiamo la relazione tenuta dall'archeologo, storico ed erudito prof. Antonino di Iorio in occasione della presentazione del volume che si è tenuta in Roma a Palazzo Valentini, sede della Provincia, il 15 dicembre 2012.

 

Signore e signori,

 

innanzitutto un ringraziamento agli organizzatori di questo interessante incontro per avermi invitato alla presentazione di un saggio di grande interesse per coloro che amano le storie locali. Certamente la pubblicazione di Memorie storiche e artistiche di Chiauci e delle sue Chiese della Professoressa Adelaide Trabucco viene a colmare una lacuna e ad accrescere non poco la già lunga serie delle monografie locali relative alla nostra Regione Molise. 

   La monografia tratta mirabilmente alcuni aspetti della storia di Chiauci, comune dell’Alto Molise, noto nel campo dell’archeologia per la sua interessante cinta megalitica del Colle Sant’Onofrio a quota 950 metri sul livello del mare, di epoca sannitica, sito del quale ebbi a interessarmi alcuni anni fa, che meriterebbero maggiore attenzione per la sua importanza storica. Il Comune è anche noto per la sua originale e caratteristica cascata lungo il fiume Trigno, la famosa Foce, con un salto di ben 60 metri, recentemente scomparsa, perché ha dato origine ad un grande invaso che certamente valorizzerà turisticamente l’Alto Molise.  

   Chiauci è una località che ricordo con molto piacere per aver ivi svolto le mansioni di segretario comunale negli anni 1947-48 e tra i tanti amici ricordo con molto piacere il professor Trabucco, padre della scrittrice Adelaide, al quale mi legava una sincera amicizia. Anche per questo l’invito è particolarmente gradito. 

   Il saggio che oggi si presenta, dedicato alla mamma dell’autrice, professoressa Mattea Messina, si compone di circa 300 pagine e si arricchisce con le presentazioni del vescovo della diocesi di Trivento monsignore Domenico Angelo Scotti e del suo vicario generale, monsignore Domenicantonio Fazioli. 

   Purtroppo la tirannia del tempo non concede altro che un rapido excursus di questo prezioso volume che, tra l’altro, ha una ricchezza documentaria veramente eccezionale, documentazione conservata nell’Archivio parrocchiale e gelosamente custodita. In genere, gli uomini di storia e di cultura cercano di strappare al passato, anche il più remoto, fatti e notizie per offrirli in omaggio alla loro Madre Terra ed è questo che ha brillantemente fatto Adelaide Trabucco, dimostrando così grande attenzione ed amore per la Terra di origine del suo genitore. Il nobile fine si è perfettamente realizzato perché la sua fatica suscita non poco interesse e perché l’Autrice si dimostra una scrittrice dalla fertile penna in quanto collabora autorevolmente con giornali e riviste specializzate, nonché con diverse associazioni culturali, anche accademiche. 

   La sua è una pubblicazione intelligente che interessa non solo sul piano culturale, ma anche su quello turistico e pertanto ha già ricevuto un corale applauso, non solo dalla intera cittadinanza di Chiauci, perché costituisce un valido aiuto per una conoscenza anche turistica. 

 

   Non va dimenticato che la pubblicazione, scritta con stile semplice ed in forma piana, colma una lacuna perché allo stato odierno non esiste uno studio così ampiamente documentato e particolarmente interessante sull’originale chiesa parrocchiale di Chiauci del XVI secolo intitolata a San Giovanni Apostolo ed Evangelista. 

   È doveroso sottolineare che i numerosi argomenti sono stati tutti affrontati con un’accurata analisi dal punto di vista storico perché l’Autrice si è valsa di una ricca documentazione di prima mano e tutti gli argomenti sono stati esaminati in piena luce, con acutezza visiva e con esattezza scientifica. La monografia offre così un nitidissimo quadro sulla storia della Chiesa e ne illustra gli aspetti più svariati appunto perché costituisce un paziente lavoro di ricerca con abbondanza di particolari ed in modo veramente esauriente. Va subito sottolineato che il lavoro non presenta forzature di alcun genere per cui costituisce un vero modello di ricerca storica. 

   Per tali motivi è doveroso sottolineare che il saggio presenta numerosi pregi letterari, documentari, editoriali per cui a buon ragione è da considerarsi una monografia di carattere municipale che può autorevolmente collocarsi fra le migliori di carattere locale perché apporta originali contributi di informazione con sicuro senso critico. 

   Non potendo soffermarmi, unicamente per ragioni di tempo, sui numerosi e tutti interessanti argomenti che l’autrice ci ha svelato con tanta dovizia di particolari, necessariamente devo limitarmi ad una semplice elencazione degli argomenti trattati. Il lavoro inizia con l’argomento “Chiauci e la sua storia” seguito da quelli relativi alla descrizione accurata dell’Archivio parrocchiale e della Chiesa di S. Giovanni Evangelista, ai riti della consacrazione del 1727, al Corredo liturgico settecentesco, all’Altare maggiore, al quadro della Madonna dell’Arco, alla Cappella del SS. Sacramento, all’altare delle Anime del Purgatorio, alla Confraternita del S. Rosario, all’altare di S. Giorgio Martire, agli altari di S. Sebastiano e di S. Antonio di Padova, al rinnovamento settecentesco, ai riferimenti devozionali della Terra di Chiauci, al Pio Ospedale, alle Opere di carità, al fonte battesimale, al pulpito, all’organo liturgico, al campanile, ai Baroni de’ Mari della Terra di Chiauci, alla sacrestia, alle sepolture, alle Chiese extra moenia di S. Sebastiano e di S. Onofrio, agli interessanti ripristini del 1800, alla Chiesa madre, all’altare della Passione, alle Cappelle di S. Vincenzo e a quella di S. Michele Arcangelo.  

   Un ricordo particolare è stato riservato alla chiesa rurale di S. Onofrio, l’edificio di culto più antico del territorio, ove annualmente nel mese di giugno si svolge una grande festa popolare con il concorso di un gran numero di presenze provenienti da numerose località viciniori.  

   Nella monografia non mancano ricordi di storiche festività religiose, tra le quali si ricorda la processione in onore del santo protettore san Giorgio, la cui cappella un tempo era  jus patronato della locale Università. In suo onore veniva organizzata una processione solenne: il simulacro del Santo protettore veniva portato in  processione dalla Chiesa madre alla Chiesa di S. Sebastiano, dove veniva solennemente esposto per l’intera giornata. In serata il simulacro veniva riportato, sempre processionalmente, nella Chiesa madre, cantato il noto Fidem e ricollocato nella sua cappella. 

   Alle processioni di un tempo partecipavano numerosi sacerdoti e chierici provenienti dai paesi vicini, in massima parte da Bagnoli del Trigno. Nel 1773 se ne contarono ben 30, mentre nel 1776 furono chiamati per la processione i cosiddetti “Tamburrieri di Pietrabbondante” ed i suonatori di violino e di altri strumenti provenienti da Castel di Sangro. 

   Parlando dell’organo della Chiesa parrocchiale, molto opportunamente l’Autrice ha voluto ricordare un noto personaggio del posto: l’organista di Casa Reale a Napoli Giuseppe Diamante Mascia, nato nella seconda metà del 1700.

   Lo storico agnonese Ascenso Marinelli così ne parla: L’organo che lo rese immortale fu quello di Lucera fatto ai principi del 1800. È opera veramente ammirabile per il disegno, per la solidità, per la esattezza, per l’armonia delle parti, per la molteplicità e per l’ingegnosa combinazione strumentale che vi è, tanto da emulare i più celebri organi del suo tempo come quello di Montecassino, di Catania, gli altri di Palermo, di Napoli e via discorrendo. Durante la sua permanenza in Agnone, ove si era sposato e dove decedette nel 1832, costruì organi per le chiese di S. Emidio di Agnone, di Barrea, di Villa Santa Maria, di Sepino, di Torella, di Vinchiaturo, di Morcone, ... 

 

   Particolare attenzione è stata dedicata anche alla decorazione della Chiesa parrocchiale eseguita nella seconda metà del secolo scorso.

   Si tratta di interessanti affreschi sulla volta e sulle pareti eseguiti nel 1956 dall’artista Valeria Vecchia con la collaborazione del marito Lino Bianchi Barriviera, notoriamente conosciuti nel mondo artistico del Novecento. Gli affreschi eseguiti ricordano: L’agonia di Gesù nel Getsemani, san Giovanni Evangelista, sant’Onofrio, san Giorgio e il drago, la cattura di Gesù nell’Orto degli ulivi, la Dormitio Virginis ed altri ancora. Non va dimenticato che i lavori di decorazione eseguiti sono dovuti all’iniziativa del parroco dell’epoca don Livio Di Vincenzo, prematuramente scomparso, e del sindaco dell’epoca Antonio Di Salvo.  

   Tra i tesori artistici della Chiesa non manca la presenza del concittadino Erminio Trabucco, padre dell’Autrice. È sua opera l’Altare della Passione, elogiato dal Corriere della Sera per l’originalità, l’arditezza della composizione, la multiformità dell’estro creativo e la genialità della concezione. È stata anche ricordata l’altra opera del Trabucco, nota come la nuova fontana in piazza: l’opera si ispira all’antica tina di rame usata dalle donne per andare ad attingere l’acqua alla fonte e che, si legge nel testo, “riportavano a casa colma d’acqua collocandola senza sforzo apparente sul capo alteramente levato, con un portamento elegante e naturale che suscitava l’ammirazione dei forestieri”.

   Piace in proposito ricordare che il Trabucco ha voluto con questa sua originale opera ricordare una scena della cultura di ieri e, forse, anche della sua permanenza in Agnone ove insegnò e ove la lavorazione del rame era notoriamente tanto diffusa.

   Certamente l’Autrice ha inteso così ricordare il padre Erminio rievocando brevemente un artista noto non soltanto per le sue qualità professionali, la lealtà, l’amore per la pace e la giustizia, come lo giudicò il noto storico monsignor don Salvatore Moffa, perché fu una figura di grande rilievo culturale come giornalista, critico d’arte, amico della scuola e collaboratore artistico. 

   Ringrazio il cortese pubblico per l’attenzione e l’Autrice per avermi dato la possibilità di leggere un libro di vasta cultura. Sono certo che il lettore rimarrà oltremodo grato all’Autrice perché è un’opera così viva che non ha voluto dimenticare l’artista contemporaneo Antonio Mascia da Chiauci, figura molto nota nel campo artistico.

   Naturalmente auguro che presto l’Autrice dia alle stampe un suo ulteriore contributo per farci meglio conoscere la verità storica delle nostre contrade.

 

Grazie, grazie ancora.

                                                                      

                                                                                              Antonino di Iorio

 

Roma, 15 dicembre 2012

 

 

 Con preghiera di citare la fonte in caso di utilizzazione del testo per motivi di studio. 

 

 

 

 

 

 

Martedì, 09 Ottobre 2012 17:22

La Madonna della Misericordia o del Mantello

All'Anno Mariano Diocesano celebrato nella Diocesi di Salernoio-Campagna-Acerno nel 1996 risalgono una serie di ricerche svolte da Adelaide Trabucco sull'iconografia mariana. L’articolo presentato su “Agire” (sabato, 22 giugno 1996) viene in questa sede arricchito da uno studio iconografico in cui, seguendo per la ricerca un'impostazione ecumenica, rileva come le invenzioni iconografiche siano numerose e diversificate sia nell'Oriente sia nell'Occidente. Ecco allora che viene a coniugarsi l’espressione dell’appellativo Madonna del mantello con titoli diversi ma di analogo significato presenti nella tradizione occidentale e orientale, quali la Madonna della Misericordia, la Madonna della Divina Provvidenza; la Blachernitissa o Madre di Dio di Blacherne, antico santuario mariano di Costantinopoli; la Theotokos Platytera, la Madre di Dio più vasta dei Cieli;  la Protezione della Madre di Dio appellata anche Madre di Dio del Pokrov, la Santa Cintura che protegge come un manto i suoi fedeli che “sotto la sua protezione si rifugiano”.

   Il titolo investigato è antichissimo perché antichissima è l'idea di invocare la protezione della Vergine. Le sue origini sono rinvenibili nella più antica preghiera mariana conosciuta (II-III sec.): "Sotto la tua protezione cerchiamo rifugio, Santa Madre di Dio: "Sub tuum praesidium confugimus, Sancta Dei Genitrix, / nostras deprecationes ne despicias in necessitatibus, / sed a periculis cunctis libera nos, / o semper Virgo gloriosa ed benedicta”.

 

 

 

 

PIERO DELLA FRANCESCA: Madonna della Misericordia  - 1444-1464ca. - Pinacoteca Comunale di S. Sepolcro

 

 

 Con preghiera di citare la fonte in caso di utilizzazione del testo per motivi di studio. 

 

 

Il quadro della Beata Vergine del Santo Rosario di Pompei e Serafini, dipinto da Adelaide Trabucco nel 2007, è stato un atto di devozione per una grazia ricevuta attraverso la preziosa intercessione della Beata Vergine del Santo Rosario venerarata nel Santuario di Pompei, nella consapevolezza che altre grazie, tanto più numerose, le saranno palesi soltanto in Cielo.   

 

   All'usuale iconografia, l'Autrice ha voluto aggiungere l'immagine dei Serafini come presenza invisibile ma reale che di certo circonda la Madre con il Figlio Divino, e che si dispiega esplicitamente o implicitamente nell'iconografia rosariana nel corso dei secoli.    

 

 

Iconografia rosariana

 

di Adelaide Trabucco  

 

 

 

 

 

La preghiera del Rosario nasce nel XII secolo quando i monaci Cistercensi, partendo dalla tradizione di dedicare alla Vergine una corona di rose, elaborarono una speciale ghirlanda: una preghiera che chiamarono appunto Rosario, paragonata ad una mistica corona di rose offerte alla Madonna. Questa devozione viene perfezionata e resa popolare da san Domenico il quale, secondo l’asserzione del Beato Alano de la Roche, nel 1214 riceve il primo rosario dalla Vergine Maria che lo indica come rimedio per la conversione dei non credenti, per la salvezza dei peccatori e per sconfiggere l’eresia albigese. Fiorisce così la devozione del S. Rosario: suoi propagatori sono i Domenicani che  con la  loro predicazione lo divulgano nell’intera Europa e che hanno inoltre il merito di creare le Confraternite del Rosario.

Il frate domenicano Giovanni da Fiesole, al secolo Guido di Pietro, era un grande innamorato della Beata Vergine Maria e del Rosario. La tradizione narra che, giovane frate, ritornava una sera al convento, recitando il Rosario. Attraversava la campagna. Gli apparve la Regina del Cielo; tanti Angeli le stavano vicino, cantando ed intrecciando una corona di rose. Il frate interruppe la recita del Rosario per contemplare quella scena di Paradiso. Gli Angeli interruppero pure il canto e lasciarono incompiuta la corona di rose. Sorpreso, il Beato Angelico ripigliò la preghiera e gli Angeli ricominciarono a cantare. Ad ogni Ave Maria, una nuova rosa veniva inserita nella corona. Terminato il Rosario, il serto di rose fu presentato dagli Angeli a Maria. Il frate non dimenticò più la visione. Si sforzò di riprodurla in pittura. Trascorse la vita nella preghiera e nel lavoro, lasciando una grande quantità di quadri, rappresentanti la Madonna e gli Angeli.

Venne chiamato Beato Angelico per la sua capacità di ricreare l’atmosfera angelica che circondava i soggetti religiosi che ritraeva nei suoi dipinti, rinnovando nel Quattrocento l’arte sacra secondo la nascente visione rinascimentale alla quale aderì in modo sublime in termini di luce, di colore e di spirituale grazia. Negli ultimi istanti della vita, mirò a lungo in alto, quasi trasfigurandosi in viso per l'emozione; poi esclamò: “La Madonna è molto più bella di quanto io l'abbia dipinta!” E spirò. E’ significativo che  fra Giovanni  è l’unico artista, in tutta la storia della Chiesa, nel cui processo canonico  non sono stati allegati scritti  teologici o spirituali ma il catalogo completo dei suoi capolavori di arte e di fede. Sempre  Giovanni Paolo II il 18 febbraio 1984 lo ha proclamato Patrono Universale degli Artisti. 

 


BEATO ANGELICO: Madonna col Bambino, Angeli e Santi - (part.) - 1448 - Galleria Nazionale dell'Umbria, Perugia 

 

L’orazione del Rosario riceve il suo battesimo ufficiale nel 1569 ad opera del papa san Pio V che emana una specifica bolla, Consueverunt Romani Pontifices. In concomitanza con la struttura definitiva della preghiera, si origina l’iconografia riguardante la Beata Vergine del Santo Rosario della quale la prima rappresentazione conosciuta è la silografia che orna il frontespizio della seconda edizione dello Statuto (1477) riguardante la prima Confraternita del Rosario eretta a Strasburgo nel 1475 dal frate Giacomo Sprenger priore dei domenicani di Colonia. La città nel 1474 aveva scongiurato il pericolo della guerra grazie alla protezione della Vergine invocata, su ispirazione di Sprenger, mediante il Rosario. Superato il pericolo della guerra, viene istituita la Confraternita: i primi iscritti sono l’imperatore Federico III e il legato pontificio, vescovo Alessandro Malatesta.

 

 

Sono i personaggi raffigurati nella silografia: la Beata Vergine in trono col Bambino, entrambi ritratti mentre porgono corone di rose. Il Bambino si volge al vescovo Malatesta, davanti al quale è inginocchiato il priore Sprenger, la Vergine si rivolge a Federico III, imperatore del Sacro Romano Impero, ai piedi del quale è inginocchiata la moglie Eleonora d’Aviz, infanta del re di Portogallo, Edoardo.

 

 

Alla prima Confraternita istituita in Italia dal domenicano tedesco Giovanni di Erfordia, nella chiesa di S. Domenico di Castello a Venezia, risale un secondo prototipo di iconografia del Rosario: la copertina dello Statuto presenta una xilografia stampata verso il 1480 - attualmente al Museo Nazionale Germanico di Norimberga - che vede la Beata Vergine in piedi, senza il Bambino Gesù, le mani giunte in preghiera., circondata da Angeli in volo, mentre ai suoi piedi sono inginocchiati il frate Giovanni di Erfordia e un laico elegantemente vestito dalle cui mani giunte pende la corona del Rosario – forse Leonhard Vilt, fondatore della confraternita del Rosario a Venezia.
 

ALBRECHT DÜRER: La Festa del Rosario - 1506 - Narodni Galerie, Praga

 
La Festa del Rosario, celebre dipinto di Dürer, si ispira all’iconografia della Confraternita di Colonia e ad altri precedenti iconografici legati a questo tipo di devozione come i Rosenkranzbild (immagini del Rosario) in cui la Madonna è raffigurata nell'atto di distribuire serti di rose bianche e rosse al popolo in venerazione, presenti i membri di ogni classe sociale. In Dürer le supreme autorità della terra, dal Pontefice Sisto IV all'Imperatore Federico III (che l'Artista ritrasse con le sembianzr del figlio Massimiliano I), al cospetto della Vergine hanno deposto in terra rispettivamente il triregno e la corona imperiale, chinandosi con devozione per ricevere le ghirlande di rose che la Vergine e il Figlio pongono sul loro capo: le uniche corone ammesse sono quelle del Rosario distribuite dalla Beata Vergine e dal Bambino, aiutati da san Domenico e dagli Angeli, a tutti i presenti, dall'Imperatore al soldato, dal Patriarca di Venezia, al Cappellano, ai semplici fedeli. Non è un caso che tutti i devoti del Rosario appartengano alle varie classi sociali: all'interno del popolare scritto devozionale Il Rosario della gloriosa Vergine Maria, nel capitolo "Ammonitione per entrare nella fraternità", si sottolinea che la Confraternita del Rosario "abbraccia tutti, cioè ricchi e poveri, huomini e donne, signori, prelati, re et principi, et niuno è escluso" (dall'edizione di Venezia, presso Gio. Antonio Bertano, 1587). L'opera è scritta a Venezia nel 1521 dal domenicano Alberto di Castello al quale si deve anche la struttura del Rosario di 15 Pater noster e di 150 Ave Maria, semplificata rispetto alla complessità della precedente configurazione, e codificata nella bolla Consueverunt Romani Pontifices, datata 12 settembre 1569 - dove per la prima volta si trova una precisazione spirituale di fondamentale importanza, ovvero che la meditazione dei Misteri del Rosario (non la meccanica ripetizione delle preci) è la condizione necessaria per ottenere le indulgenze.

 

 

ANTOON van DYCK: La Madonna del Rosario con san Domenico e santa Caterina da Siena e i santi Vincenzo Ferreri, Oliva, Ninfa, Agata, Cristina e Rosalia  - 1625-1627 - Palermo, Oratorio di S. Domenico, Presbiterio

 

 Gli artisti italiani predilessero una diversa iconografia che valorizzava il ruolo svolto da san Domenico: la Vergine, su una nuvola, si mostra a san Domenico inginocchiato e gli porge la mistica corona, come nella suggestiva pala d’altare di Antoon van Dyck commissionata in occasione della peste che aveva colpito Palermo nel 1624, e consegnata nel 1628. Il dipinto raffigura la Madonna del Rosario con san Domenico e santa Caterina da Siena e i santi Vincenzo Ferreri, Oliva, Ninfa, Agata,Cristina e Rosalia, e fu realizzato per volere della Compagnia della Madonna del Rosario, che nel 1574 aveva fatto edificare il mirabile Oratorio del Rosario di S. Domenico accanto all'omonima chiesa.