Dall'Inno Akathistos a San Michele Arcangelo
Giovanni Antonio da Pesaro, pittore per sensibilità e formazione vicino a Gentile da Fabriano, dipinge una rara effigie che coniuga l’iconografia della Madonna del Mantello o Madonna della Misericordia con l’iconografia bizantina della Madre di Dio del Segno, conosciuta in Italia nelle aree dov’erano maggiori i contatti con l’oriente, quale, nel nostro caso, la costa adriatica. La tavola, realizzata per il Santuario di S. Maria dell’Arzilla vicino Pesaro, di origine medievale, è firmata, datata, nonché ulteriormente storicizzata dall'indicazione dell’identità del Committente. Alla base del dipinto si trova una dettagliata iscrizione, in lettere gotiche di color rosso, che attesta: “Giovanni Antonio Pesarese ha dipinto. Ave Maria. Nell’anno del Signore 1462 il giorno 8 dicembre questa immagine di S. Maria della Misericordia commissionò la comunità di Saltara”.
Compare in Occidente nel XIII secolo la rappresentazione della Vergine del Mantello la quale per la sua misericordia copre i fedeli con il suo manto in un gesto di protezione, di difesa, di amore.
SIMONE MARTINI: Madonna della Misericordia o del Mantello - 1305-1310 ca. - tempera e oro su tavola - Pinacoteca Nazionale di Siena
Proponiamo in questa sede anche la Madonna del Mantello dipinta da Domenico di Michelino nel 1446 circa e restaurata nella Bottega di Francesco Granacci agli inizi del secolo XVI. È precisamente appellata Madonna degli Innocenti o Madonna dei Gittarelli, dipinta sullo stendardo del brunelleschiano Spedale degli Innocenti. L’Istituzione volle scegliere per sé tale denominazione che richiamasse la erodiana Strage degli Innocenti (Mt 2, 1-16) poiché sorse a Firenze nel 1448 per accogliere i neonati lasciati, “gittati”, nella ruota a conca dalle madri che, per varie ragioni, non potevano allevarli – da qui l’appellativo di Madonna dei Gittarelli. Sono bambini e bambine di età differenti e dal conseguente diverso abbigliamento: alcuni in fasce, altre parzialmente fasciati e con le gambine libere, altri con bianchi vestiti a camicina, altri con il grembiulino nero recante lo stemma degli Innocenti, un bimbo avvolto nelle fasce. Nella loro diversità li accomuna l’espressione dolce, serena e mesta dei visi, la naturale vivacità dell’età che si manifesta, pur nella compostezza della messa in posa per il ritratto, nel repentino volgersi delle teste e nel vario incrociarsi degli sguardi, i sentimenti di affetto e protezione gli uni verso gli altri e la richiesta di amore e difesa nei riguardi della Vergine, esplicitamente manifestata dal bimbo che si appoggia con abbandono e confidenza al corpo della Madonna che, sotto il mantello, indossa la lunga veste rossa della Charitas divina.
DOMENICO di MICHELINO: Madonna del Mantello o Madonna degli Innocenti - 1446 ca. - tempera su tela - Galleria dello Spedale degli Innocenti, Firenze
La Madre di Dio del Segno è un’immagine di derivazione bizantina di cui Andrè Grabar individua magistralmente le origini nell’iconografia del tema dell’incarnazione e della concezione, nell’ambito della categoria dei dogmi raffigurati da immagini giustapposte. Nell’iconografia usuale dell’incarnazione un raggio di luce discende su Maria e la colomba dello Spirito Santo vola su di lei o discende verso il suo orecchio. A partire da questa iconografia consueta, verso il IX secolo nell’Impero bizantino se ne sviluppa un’altra: Maria in preghiera con le braccia alzate nel gesto dell’Orante e il Bambino racchiuso in un clipeo sul petto di lei. Questo singolare motivo era una convenzione per mostrare, per così dire in trasparenza, il Bambino che doveva nascere[1]. L’effigie manifesta le parole del profeta Isaia: “Pertanto il Signore stesso vi darà un segno. Ecco: la vergine concepirà e partorirà un figlio, che chiamerà Emmanuele”[2]. L’evangelista san Matteo, il più attento alla continuità ed alle anticipazioni e corrispondenze fra Antico Testamento e Vangelo, legge nella profezia di Isaia l’annuncio della nascita di Gesù, l’Emmanuele ovvero il Dio-con-noi, il Segno dato da Dio – da cui il nome di Madre di Dio del Segno assegnato all'icona.
Madre di Dio del Segno o Platytera - XIII secolo - tempera e oro su tavola - Monastero di S. Caterina sul Sinai
La tavola di Giovanni Antonio da Pesaro raffigura la Madonna della Misericordia o del Mantello mentre copre con il suo manto i fedeli, recando sul petto non un clipeo, ma una mandorla, simbolo dell’universo che custodisce al suo interno il Bambino di cui viene messa in risalto la divinità. Egli è raffigurato nudo con un lieve panno di rispetto sui fianchi, ben saldo in piedi, mentre con la mano destra benedice e con la mano sinistra regge una sottile croce astile che all’incrocio dei bracci presenta il globo, altro simbolo del Creato, a sottolineare il concetto del governo misericordioso di Cristo sull’universo.
Se è vero che nel cuore della madre c'è il figlio, in questo caso singolare nel cuore della creatura c'è il Creatore, colui che “i cieli e i cieli dei cieli non possono contenere, né tantomeno il Tempio"[3]. Egli in Maria “ha fatto grandi cose guardando l’umiltà della sua serva"[4] la quale da san Basilio, Padre della Chiesa, è appellata Platytera, la più vasta dei cieli tanto da accogliere il Verbo fatto carne, colui che i cieli non possono contenere: “Tu, sede di Dio, l’Infinito”[5] – canta l’inno liturgico Akathistos (V-VI secolo). Ed è colui il quale nella Madonna della Misericordia e Madre di Dio del Segno fa vedere Gesù, segno e strumento della Misericordia del Padre, in lei “clemenza di Dio verso l’uomo / fiducia dell’uomo con Dio”[6].
Con preghiera di citare la fonte in caso di utilizzazione del testo per motivi di studio.
Vincent van Gogh dipinge Campo di grano con volo di corvi nel 1890: è una delle sue ultime opere e preannuncia il suicidio dell’Artista, avvenuto il 29 luglio di quello stesso anno. Nello stesso mese di luglio aveva scritto al fratello Theo: “Ho ancora dipinto tre grandi tele. Sono immense distese di grano sotto cieli tormentati, e non ho avuto difficoltà per cercare di esprimere la mia tristezza, l'estrema solitudine”.
VINCENT VAN GOH: Campo di grano con corvi - 1890 - Museo Van Gogh, Amsterdam
L’opera, ed in generale l’arte di van Gogh, manifesta come la pittura del Nostro sia alla radice dell’Espressionismo nella sua capacità di imprimere con forza il proprio segno nella realtà, un segno che in van Gogh è segno dell’anima, della mente e del cuore. Il dipinto costituisce un esempio estremo di uso violentemente psicologico del segno e del colore.
VINCENT VAN GOGH: Notte stellata - 1889 - Museum of Modern Art, New York
Van Gogh ha appreso pienamente dagli Impressionisti le indicazioni riguardanti la reciproca influenza dei colori e la capacità che posseggono segnatamente i colori complementari di esaltarsi reciprocamente accentuando al massimo la loro specifica luminosità. Questi rapporti, però, non lo interessano come riscontri visivi, bensì come rapporti di forze all’interno del quadro: sono forze di attrazione, ma anche di repulsione, e comunque sempre manifestano tensione. A motivo di tali rapporti e contrasti di forze l’immagine tende a distorcersi, a deformarsi, a lacerarsi: per l’accostamento stridente dei colori, per l’andamento spezzato dei contorni, per il ritmo serrato delle pennellate, che fanno del quadro un contesto serrato di segni animati da una vitalità febbrile. La materia pittorica acquista un’esistenza autonoma, esasperata, quasi insopportabile: il quadro non rappresenta, è. Così in Campo di grano la scena, realizzata con autentico furore creativo, è composta da pennellate che seguono la direzione dei piani prospettici o si accavallano. Il campo di grano, tagliato da tre viottoli, appare scosso dal vento; uno stormo di corvi neri, resi con semplici linee zigzaganti, si leva in un basso volo scomposto. Una tempesta, quasi presaga di lutto, incombe su questo paesaggio, anticipata da nubi nere e minacciose. L’azzurro luminoso del cielo, l’oro lucente del grano, vinti dal colore scuro che li copre, stanno per soccombere, come l’artista che li dipinge, in un ultimo, disperato appello di vita.
VINCENT VAN GOGH: Iris blu - 1889 - J. Paul Getty Museum, Los Angeles
Eppure non molto anni prima aveva scritto al fratello: “Per quanto vuota, vana e morta possa sembrare la vita però, chi ha fede, energia e calore umano, colui che sa qualcosa, non si lascia portare su una strada sbagliata per questo. Egli ci si butta e costruisce, in breve rompe, rovina” (Nuenen, ottobre 1884).188
VINCENT VAN GOGH: Veduta di Arles in fiore - 1889 - Neue Pinakothek, Monaco
I paesaggi di van Gogh, i fiori di van Gogh sono la trasposizione simbolica di uno stato d’animo e di una situazione esistenziale, testimoniata, fra i tanti passi delle sue lettere, dalle parole scritte da Cuesmes al fratello Theo dieci anni prima: “Il mio tormento si riassume in questo interrogativo: a che potrei servire, come potrei essere utile in qualche modo, come potrei saperne di più e approfondire questa o quella cosa? Vedi, tutto questo mi tormenta continuamente e mi sento prigioniero, impotente a partecipare a tale o tal’altra opera. A causa di questo si diviene malinconici”.
VINCENT VAN GOGH: Pietà - 1890 - Musei Vaticani
Il 27 luglio 1890 van Gogh si sparò un colpo di pistola al petto. Visse ancora due giorni, durante i quali conversava con il fratello Theo accorso da lui. Ci piace pensare che in quelle ore, che possono essere state un tempo di grazia, sia continuata in lui quella dialettica che aveva attraversato tutta la sua vita e che lo aveva condotto a dire: “Se si continua ad amare sinceramente ciò che è veramente degno di essere amato, e non si spreca il proprio amore per delle cose insignificanti, vuote e sciocche, si riceverà poco a poco sempre maggior luce e si diventerà più forti” (Amsterdam, 3 aprile 1878). E qualche anno più tardi, non dimentico di quella scelta della sua gioventù che lo aveva condotto a condividere la vita durissima e misera dei minatori del Borinage, aveva messo a fuoco e puntualizzato: “il miglior modo per conoscere Dio è quello di amare molto. Ama il tale amico, la tale persona, la tale cosa, quel che vuoi e sarai sulla via del sapere, ecco ciò che mi ripeto. Ma occorre amare con simpatia seria e intima, con volontà, con intelligenza e bisogna sempre cercare di saperne di più o meglio – questo conduce a Dio, alla fede incrollabile” (Cuesmes, luglio 1880). Aveva così magistralmente interpretato il "Dilige et quod vis fac" (In Io. Ep. tr. 7, 8) di sant'Agostino: "Ama e fa' ciò che vuoi, sia che tu taccia, taci per amore, sia che tu parli, parla per amore, sia che tu corregga, correggi per amore, sia che perdoni, perdona per amore; sia in te la radice dell'amore, poiché da questa radice non può procedere se non il bene".
VINCENT VAN GOGH: Mandorlo in fiore - 1890 - Museo Van Gogh, Amsterdam
Con preghiera di citare la fonte in caso di utilizzazione del testo per motivi di studio.
Il testo espone la personale e originale lettura critica di Adelaide Trabucco su René Magritte ed è tratto dalla sua tesi di Laurea in Storia della Critica d’Arte: “Magritte e il motto di spirito freudiano”, presso l’omonima cattedra tenuta dal professor Angelo Trimarco, presso l'Università di Salerno. Lo scritto è stato pubblicato sulla Rivista trimestrale d’arte contemporanea “Terzoocchio” - anno X, dicembre 1984, n. 4 (33). Nella presente sede l'articolo è accompagnato da una ricerca iconografica di opere magrittiane sia famose sia meno note, ma non meno singolari.
Magritte: La battaglia delle Argonne - 1959 - Collezione privata
MAGRITTE: Il Bouquet - 1956 - Collezione privata
MAGRITTE: La corda sensibile - 1960 - Collezione privata
MAGRITTE: La chiave di vetro - 1959 - Manil Collection, Houstonx
MAGRITTE: Il plagio (II) - 1945 - Collezione privata
MAGRITTE: Il seduttore - 1951 - Collezione privata
MAGRITTE: La condizione umana - 1935 - Collezione privata
MAGRITTE: La voce del sangue - 1948 - Collezione privata
MAGRITTE: Il ritorno - 1940 - Museo Magritte, Bruxelles
MAGRITTE: La grande guerra - 1964 - Collezione privata
MAGRITTE: Il Castello dei Pirenei - 1951 - Museo d'Israele, Gerusalemme
MAGRITTE: L'elogio della dialettica - 1937 - National Gallery of Victoria, Melbourne
Con preghiera di citare la fonte in caso di utilizzazione del testo per motivi di studio.
Presentiamo il commento critico sui mosaici creati da Marko Ivan Rupnik e da lui realizzati in collaborazione con il Centro Aletti nel 1996-1999 per la Cappella Redemptoris Mater nel Palazzo Apostolico in Vaticano. Lo scritto, pubblicato sul settimanale "Agire" il 2 dicembre 2000, è accompagnato nella presente sede da un ampio corredo iconografico al fine di rendere partecipi i lettori di un capolavoro dell'arte contemporanea.
L'Annunciazione - Parete dell'Incarnazione del Verbo - (part.) - Cappella Redemptoris Mater
Anastasis e Battesimo di Cristo, Parete dell'Incarnazione del Verbo - (part.) - Cappella Redemptoris Mater
La Crocifissione - Parete dell'Incarnazione del Verbo - (part.) - Cappella Redemptoris Mater
Giuda
Parete dell'Incarnazione del Verbo - (part.) - Cappella Redemptoris Mater
Pentecoste, Ascensione - Parete della divinizzazione dell'uomo - (part.) - Cappella Redemptoris Mater
La Decollazione di san Paolo - Parete della divinizzazione dell'uomo - (part.) - Cappella Redemptoris Mater
Santa Edith Stein ad Auschwitz
Parete della divinizzazione dell'uomo - (part.) - Cappella Redemptoris Mater
Mosè - Parete della Parousia - (part.) - Cappella Redemptoris Mater
La Parousia - Cappella Redemptoris Mater
Noè - Parete della Parousia - (part.) - Cappella Redemptoris Mater
Parete dell'Incarnazione del Verbo - Cappella Redemptoris Mater
Con preghiera di citare la fonte in caso di utilizzazione del testo per motivi di studio.
Nella seconda metà degli anni '80 gli artisti Franco Cipriano, Luigi Pagano, Angelo Casciello, Luigi Vollaro, Gerardo Vangone si costituirono in un gruppo appellato "Officina di Scafati" e realizzarono un'esposizione a Scafati dal 23 dicembre 1986 al 6 gennaio 1987 nei vasti locali della Scuola "Tommaso Anardi".
Tratto dal Catalogo della mostra, proponiamo lo scritto critico Mnemosine che presenta gli artisti Angelo Casciello, Luigi Pagano, Franco Cipriano, corredandolo con le fotografie di alcune ultime loro opere.
La firma della presentazione reca anche il cognome "Messina" come omaggio da parte dell'Autrice alla Madre, la professoressa Messina, vedova dell'artista Erminio Trabucco.
ANGELO CASCIELLO - dalla mostra "Il tempio dei segni" - Benevento, 2013
LUIGI PAGANO - anno 1987 - pastelli oleosi su carta
FRANCO CIPRIANO: Dimentico, di dove? - 2000
Con preghiera di citare la fonte in caso di utilizzazione del testo per motivi di studio.
All'Anno Mariano Diocesano celebrato nella Diocesi di Salerno-Campagna-Acerno nel 1996 risalgono una serie di ricerche svolte da Adelaide Trabucco sull'iconografia mariana. L’articolo presentato su “Agire” (sabato, 30 giugno 1996) riguarda l'iconografia di Maria in trono e viene in questa sede arricchito da uno studio iconografico che segue un'impostazione ecumenica, ponendo in evidenza come siano numerose e varie le creazioni iconografice sia in Oriente sia in Occidente nonchè gli appellativi rivolti a sottolineare la regalità della Beata Vergine Maria: Vergine della Maestà, Maria in trono, Vergine Kyriotissa, Maria Regina.
FRANCESCO d'ANTONIO ZACCHI detto IL BALLETTA: Madonna in trono tra san Giovanni Battista e il Cristo Eucaristico
XV sec. - S. Maria Nuova, Viterbo
1312-GIOVANNI BELLINI: Madonna in trono detta Madonna di Brera - 1510 - Pinacoteca di Brera, Milano
Kyriotissa - icona cretese - XV-XVI sec.
Con preghiera di citare la fonte in caso di utilizzazione del testo per motivi di studio.
Proponiamo il commento critico di Adelaide Trabucco dedicato allo scultore napoletano Annibale Oste il quale tra il 1978 ed 1980 dedica la sua riflessione creativa allo spazio in quanto causa ed occasione di accadimenti che con esso interagiscono, come l'aria ed il vento. Lo scritto viene pubblicato nel 1981 sulla rivista trimestrale di arte contemporanea "lapis/arte" (n.° 4, dicembre 1981, anno II, pgg.10-12).
La firma dell'articolo presenta anche il cognome "Messina" come omaggio da parte dell'Autrice alla Madre, la professoressa Messina, vedova dell'artista Erminio Trabucco.
Con preghiera di citare la fonte in caso di utilizzazione del testo per motivi di studio.
Viteliú. Il nome della libertà: il romanzo storico di Nicola Mastronardi
di Adelaide Trabucco
Il romanzo storico di Mastronardi sui Sanniti, Viteliú. Il nome della libertà, colma un colossale vuoto culturale denunciato dall’archeologo Salmon, il quale nel suo fondamentale Samnium and the Samnites scrive riguardo al suddetto popolo: «Furono fatti scomparire, dispersi e assorbiti nell’avvolgente diluvio latino […] ma l’ammirazione per l’umano coraggio e la costanza rimane, e non vi è luogo in cui sia espressa più eloquentemente che nelle parole del più patriottico degli storici romani: “Non fuggivano la guerra, ed erano così lontani dallo stancarsi di una difesa anche senza successo della loro libertà, che preferivano essere conquistati piuttosto che rinunciare a sforzarsi di vincere” (Livio X 31.14)»[1].
Il lavoro letterario di Nicola Mastronardi è un romanzo condotto con grande passione storica e archeologica, un affresco dall’ampio respiro epico che possiede anche un sottotesto accurato e ricco di rimandi pregnanti di tematiche significative. Sono plurimi i livelli di lettura e di interpretazione del testo, perché sono plurimi i fili rossi che si snodano paralleli e percorrono il libro, separando e poi ricollegando il tema del coraggio, dell’amore, dell’amicizia, dell’onore, dell’eroismo, dell’assunzione di responsabilità in quanto individuo e in quanto appartenente a un popolo sul punto di scomparire sommerso nell’ “avvolgente diluvio latino”.
Il giovane Marzio è ignaro di essere sannita da parte di padre e, da parte di madre, marso, come indica il suo nome, discendente quindi sia degli indomiti Safini sia di quei guerrieri italici il cui nome proveniva dal dio della guerra Marte, nell’idioma marso Mars o Mors - gli stessi sui quali lo storico Appiano di Alessandria riporterà il proverbio romano: “Nec sine Marsis nec contra Marsos triumphari posse".
Marzio,appena uscito dall’adolescenza, intraprende un viaggio che, prima ancora di essere rinvenimento della propria identità etnica, culturale e religiosa, è scoperta della propria identità personale. e della propria identità virile.
Uno dei temi più significativi e universali presenti nel testo, difatti, è il passaggio dall’età adolescenziale all’età adulta, che pone il romanzo in rapporto critico e riflessivo con altri scritti i quali trattano in maniera esplicita o velata l’analogo tema. Nondimeno, più che la dimensione metatestuale del libro, a noi preme in questa sede sottolineare l’attualità di tale argomento nella nostra epoca la quale da alcuni decenni sembra patire la sindrome che lo psicologo junghiano Daniel Kiley denomina “sindrome di Peter Pan” nel suo omonimo best seller., collegandosi al romanzo di James Matthew Barrie Peter and Wendy. In Viteliú. Il nome della libertà il giovane Marzio è ben lontano dal puer aeternus. Egli è un modello propositivo poiché accoglie la spinta al cambiamento e alla crescita, per quanto dolorosi potranno rivelarsi, rinunciando a valori, convinzioni e atteggiamenti dell'età precedente per assumerne di nuovi e accettando la dimensione della rinuncia in quanto condizione necessaria per la maturazione.
Nel rito di passaggio, il primo stadio è la separazione di Marzio dal contesto familiare e sociale in cui ha sempre vissuto. Il secondo stadio comporta la transizione, ovvero l’attraversamento e il superamento della prova, costituita non dalla singola prova rituale ma dall’intero viaggio costellato da difficoltà, sofferenze e pericoli. Il terzo stadio vede la reintegrazione nella sua esistenza con un nuovo stato, che vedrà riunite le identità sannita e romana.
In Viteliú (pronuncia in italiano: "Viteliu") il processo di passaggio all’età adulta ha come mentore il nonno paterno Gavio Papio Mutilo, il quale per il nipote costruisce il legame fra identità e memoria.
Denario sannita in argento del Bellum Sociale con legenda sul rectus MVTIL EMBRATVR in caratteri oschi,sul versus un toro nell’atto di abbattere una lupa, in exergo [C] PAAPI in caratteri oschi.
La figura dell’Embratur, il capo supremo delle forze sannite, viene delineata con somma maestria da Nicola Mastronardi che ne descrive il valore, la saggezza, il peso dell’immenso dolore e amore che nutre per il suo popolo. L’anziano Embratur indica a Marzio i nomi di tutte le famiglie dell’Alto Sannio, ne ricorda le vicende, le imprese eroiche, perfino i soprannomi, oltre a menzionare gli appellativi delle valli, delle foreste, dei fiumi, dei santuari e degli dei sanniti. Alle persone, alla natura, alle divinità viene restituita la vita e l’identità grazie alla memoria.
Gavio è storicamente quel Gaio o Caio Papio Mutilo comandante nel Bellum Italicum delle forze sannite in Campania e nel Sannio, unico tra i confederati ad assumere il titolo di embratur, “imperatore” nella lingua osca, dopo le vittorie del 90 a. C. Il suo nome si trova come C.PAAPI.MVTIL, o C.MVTIL, o MVTIL EMBRATVR in tanti denari d’argento coniati, quando si costituì la Confederazione Italica, dalla zecca di Corfinium Italica tra il 90 e l’89, in segno di sfida all’autorità romana e come dichiarazione del progetto di uno stato rivale in Italia, nonché per sostenere le ingenti spese militari: su di essi si trova la legenda "ITALIA" in latino o "VITELIV" in osco.
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Denario in argento del Bellum Sociale,versus,Il giuramento dei Cinfederati della Lega Italica con gli otto popoli insorti
Ad accrescere il carisma sapienziale di Gavio Papio Mutilo, nel testo egli è rappresentato come cieco a causa degli eventi bellici. Il paradosso del maestro cieco che apre la via e conduce alla meta è un paradosso apparente perché dall’antichità esiste l’idea che la perdita della vista fisica è compensata dal possesso di una vista interiore che consente al saggio di vedere il dritto, il rovescio e il risvolto. Dai primordi vi è la certezza che collega la privazione di una facoltà vitale come la vista al godimento di vari poteri spirituali e soprannaturali. Tiresia è condannato da Atena alla cecità, ma gli viene accordato il dono della divinazione. Omero, poeta eccelso, viene descritto quale cantore cieco.
Gavio Papio Mutilo, privato della vista, è senz’altro figura del veggente cieco. È colui che non vedendo con gli occhi dei sensi, ha sviluppato una vista interiore che gli consente di vedere e leggere la realtà più e meglio degli altri. Gli permette di interpretare meglio le vicende passate. E, poiché dalla profondità e ramificazioni delle radici dell’albero dipende l’altezza del suo fusto e l’ampiezza della sua chioma, la stessa vista interiore di conseguenza gli permette di vedere il futuro.
È lui a scorgere la via che il nipote Marzio, ignaro delle sue radici, deve percorrere per ritrovare la propria identità offuscata dalla sua dorata posizione romana. Una identità che coincide con il riscatto del suo popolo dalla condizione di nascondimento in cui versa, sconfitto ma non domato da quella Roma che gli italici chiamano la Lupa, volendo significare la famelica lupa che vuole cibarsi della libertà dei popoli italici.
È il valoroso Embratur cieco a vedere il percorso che la sua gente ed i vari popoli italici dovranno compiere per conquistare un posto inter pares nella penisola, né contro Roma né sottoposti a Roma. Ecco allora affiorare nel testo e delinearsi in modo sempre più nitido, accanto al tema della guerra, il tema del dialogo e della pace. È proprio Gavio Papio Mutilo, il Capo supremo delle forze sannite ad affermare: “Gli innovatori devono armarsi non di spada, ma di pazienza e di immensa fede nelle loro idee. […] Un uomo ispirato […] non prenderà le armi, ma userà la parola e qualsiasi mezzo fuorché la violenza per vincere”[2]. Difatti: “La violenza è come un drago che soffia il suo fuoco contro uno specchio di metallo. Esso torna indietro e brucia chi l’ha utilizzata”[3]. Per l’Embratur sannita “in un solo caso combattere diventa necessario: quando ad essere attaccate sono la tua famiglia, la tua terra e la tua stessa vita”[4].
Gavio Papio dirà al nipote: “Ho imparato a leggere i segni dei tempi […] è ora di guardare al futuro con occhi nuovi. Non più guerra, ma unione delle forze e dei destini tra Viteliu e Roma. Sta già accadendo, e i superstiti del popolo da cui tutto ha avuto inizio non devono rimanerne fuori. Anche perché sono stati proprio i Safinos a pagare di gran lunga il prezzo più caro rischiando la scomparsa totale”[5].
La moneta detta “Moneta della riconciliazione” coniata nel 69 a. C. reca sul rectus i profili affiancati di Honor (HO) e Virtus (VI), sul versus le personificazioni dell’Italia (ITAL) e di Roma (RO) che si stringono la mano.
Denaro in argento detto Moneta della riconciliazione, 69 a. C.,sul rectus i profili affiancati di Honor (HO) e Virtus (VI), sul versus le personificazioni dell'Italia (ITAL) e di Roma (RO) che si stringono la mano
La meta indicata dall’Embratur, a noi sembra, per conquistare un posto inter pares è la Pax Opus Justitiae. Non la Pax romana, quella che alla fine del I secolo a. C. per esaltare il divo Cesare Ottaviano Augusto – e, con lui, la stessa Roma - verrà sotto il profilo artistico mirabilmente celebrata attraverso i rilievi neoattici dall’Ara Pacis Augustae. La Pax romana è imposta con le armi, è una pace che i popoli dominati mal tolleravano, pronti a ribellarsi non appena si presentava l’occasione di affrancarsi dal giogo nemico per riconquistare la libertà. Alla base si trova il misconoscimento del rapporto di natura etica e consequenziale intercorrente tra pace e giustizia, tra diritto e sicurezza. "Et erit opus justutiae pax et cultus justitiae silentium et securitas usque in sempiternum"[6], aveva scritto il profeta Isaia nell’VIII secolo a. C.: la pace è frutto della giustizia e non può scaturire dalla concussione dei diritti della persona, primo tra i quali è il diritto alla libertà. Precisamente, Viteliú. Il nome della libertà.
[1] EDWARD TOGO SALMON, Samnium and the Samnites, Cambridge 1967, trad. it., Il Sannio e i Sanniti, Torino 1995, pp. 421-422 ; cfr. ADRIANO LA REGINA, Dalle guerre sannitiche alla romanizzazione, in AA. VV., “Sannio, Pentri e Frentani dal VI al I sec. a. C., Catalogo della Mostra, Roma 1980, pp. 29-42; ADRIANO LA REGINA, I Sanniti, in G. Pugliese Carratelli (ed.), Italia omnium terrarum parens, Libri Scheiwiller, Milano 1989; AA. VV., Antiche genti d’Italia ( cat. ), Roma 1994 e 1995.
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Read moreCodice Vaticano Latino 5729. Risonanze teologiche di una proposta didattica di Adelaide Trabucco Il professor Vincenzo Avagliano, docente di scultura presso il Liceo Artistico “Andrea Sabatini” di Salerno diretto dal Preside Michele...
Read moreUna interessante mostra delle opere di Pier Francesco Mastroberti si è tenuta il 18 gennaio nella sede del Circolo Lucano "Giustino Fortunato" a Salerno. Come ho avuto occasione di rilevare...
Read moreAll'Anno Mariano Diocesano celebrato nella Diocesi di Salernoio-Campagna-Acerno nel 1996 risalgono una serie di ricerche svolte da Adelaide Trabucco sull'iconografia mariana. L’articolo presentato su “Agire” (sabato, 22 giugno 1996) viene...
Read moreIl quadro della Beata Vergine del Santo Rosario di Pompei e Serafini, dipinto da Adelaide Trabucco nel 2007, è stato un atto di devozione per una grazia ricevuta attraverso la...
Read moreL’articolo, pubblicato sul settimanale “Agire” (7 gennaio 1989), riporta la presentazione della prima mostra personale dell’artista Mirella Monaco che si tenne dal 7 al 18 gennaio 1989 nella Chiesa di...
Read moreLa diocesi di Salerno-Campagna-Acerno indice nel 1996 l’Anno Mariano Diocesano. Adelaide Trabucco approfondisce il tema mariologico all’interno delle creazioni artistico e, seguendo per la ricerca un'impostazione ecumenica, rileva come le...
Read moreProponiamo la presentazione della scultura Resurrectio di Vincenzo Avagliano, che ha avuto luogo nella cerimonia di inaugurazione avvenuta il 14 maggio 2011 a Castel San Giorgio. L'opera è stata posta...
Read moreNella seconda metà degli anni '80 gli artisti Franco Cipriano, Luigi Pagano, Angelo Casciello, Luigi Vollaro, Gerardo Vangone si costituirono in un gruppo appellato "Officina di Scafati" e realizzarono un'esposizione...
Read more"Comunicare attraverso l'arte" è la chiave interpretativa attraverso la quale Adelaide Trabucco ha presentato i dipinti di Arnaldo Prete e Francesco Zona, due studenti del Liceo Artistico "Andrea Sabatini" di Salerno. La loro...
Read moreL'icona della Madre di Dio della Tenerezza è stata scritta da Adelaide Trabucco nel 2005 per la ristrutturazione della Chiesa dedicata a Maria SS. del Carmine e San Giovanni Bosco...
Read moreAll'Anno Mariano Diocesano celebrato nella Diocesi di Salerno-Campagna-Acerno nel 1996 risalgono una serie di ricerche svolte da Adelaide Trabucco sull'iconografia mariana. Qui viene presentato, arricchito da un selezionato corredo iconografico...
Read moreL’articolo pubblicato su Le Arti.news (n. 2-3, Marzo-Aprile/Maggio-Giugno 1984, Anno III) riguarda la mostra “Alfabeti” che presentava le opere di alcuni artisti iai quali Adelaide Trabucco rivolge la sua attenzione – Binga...
Read moreProponiamo lo scritto del catalogo per la scultura dedicata a san Pio da Pietrelcina realizzata nel 2001 da Pier Francesco Mastroberti, medico e artista a tuttotondo, per gli Ospedali Riuniti...
Read moreL'articolo, pubblicato sul settimanale Agire nel 1995 (24 febbraio) studia, seguendo una sensibilità ecumenica, la Madre di Dio di Vladimir, icona celeberrima per la sua bellezza ed intensità espressiva. Con preghiera...
Read moreIn occasione della memoria liturgica dell'Annunciazione, Adelaide Trabucco scrive un articolo, pubblicato sul settimanale "Agire" (23 marzo 1996) e qui riproposto accompagnato dalle immagini. Lo scritto prende in esame alcune...
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