Giovedì, 20 Novembre 2014 16:23

VITELIU. IL NOME DELLA LIBERTA': l'epopea dei Sanniti nel romanzo storico di Nicola Mastronardi In evidenza

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Museo Archeologico Provinciale di Salerno: presentazione di Viteliu. Il nome della libertà, di Nicola Mastronardi Museo Archeologico Provinciale di Salerno: presentazione di Viteliu. Il nome della libertà, di Nicola Mastronardi

Viteliú. Il nome della libertà: il romanzo storico di Nicola Mastronardi

di Adelaide Trabucco

 

 

 

 

 

Il romanzo storico di Mastronardi sui Sanniti, Viteliú. Il nome della libertà, colma un colossale vuoto culturale denunciato dall’archeologo Salmon, il quale nel suo fondamentale Samnium and the Samnites scrive riguardo al suddetto popolo: «Furono fatti scomparire, dispersi e assorbiti nell’avvolgente diluvio latino […] ma l’ammirazione per l’umano coraggio e la costanza rimane, e non vi è luogo in cui sia espressa più eloquentemente che nelle parole del più patriottico degli storici romani: “Non fuggivano la guerra, ed erano così lontani dallo stancarsi di una difesa anche senza successo della loro libertà, che preferivano essere conquistati piuttosto che rinunciare a sforzarsi di vincere” (Livio X 31.14)»[1].

   Il lavoro letterario di Nicola Mastronardi è un romanzo condotto con grande passione storica e archeologica, un affresco dall’ampio respiro epico che possiede anche un sottotesto accurato e ricco di rimandi pregnanti di tematiche significative. Sono plurimi i livelli di lettura e di interpretazione del testo, perché sono plurimi i fili rossi che si snodano paralleli e percorrono il libro, separando e poi ricollegando il tema del coraggio, dell’amore, dell’amicizia, dell’onore, dell’eroismo, dell’assunzione di responsabilità in quanto individuo e in quanto appartenente a un popolo sul punto di scomparire sommerso nell’ “avvolgente diluvio latino”. 

 

   Il giovane Marzio è ignaro di essere sannita da parte di padre e, da parte di madre, marso, come indica il suo nome, discendente quindi sia degli indomiti Safini sia di quei guerrieri italici il cui nome proveniva dal dio della guerra Marte, nell’idioma marso Mars o Mors - gli stessi sui quali lo storico Appiano di Alessandria riporterà il proverbio romano: Nec sine Marsis nec contra Marsos triumphari posse".

   Marzio,appena uscito dall’adolescenza, intraprende un viaggio che, prima ancora di essere rinvenimento della propria identità etnica, culturale e religiosa, è scoperta della propria identità personale. e della propria identità virile.

   Uno dei temi più significativi e universali presenti nel testo, difatti, è il passaggio dall’età adolescenziale all’età adulta, che pone il romanzo in rapporto critico e riflessivo con altri scritti i quali trattano in maniera esplicita o velata l’analogo tema.  Nondimeno, più che la dimensione metatestuale del libro, a noi preme in questa sede sottolineare l’attualità di tale argomento nella nostra epoca la quale da alcuni decenni sembra patire la sindrome che lo psicologo junghiano  Daniel Kiley  denomina “sindrome di Peter Pan” nel suo omonimo best seller., collegandosi al romanzo di James Matthew Barrie Peter and Wendy.  In Viteliú. Il nome della libertà il giovane Marzio è ben lontano dal  puer aeternus. Egli è un modello propositivo poiché accoglie la spinta al cambiamento e alla crescita, per quanto dolorosi potranno rivelarsi, rinunciando  a valori, convinzioni e atteggiamenti dell'età precedente per assumerne di nuovi e accettando la dimensione della rinuncia in quanto condizione necessaria per la maturazione.

   Nel rito di passaggio, il primo stadio è la separazione di Marzio dal contesto familiare e sociale in cui ha sempre vissuto. Il secondo stadio comporta la transizione, ovvero l’attraversamento e il superamento della prova, costituita non dalla singola prova rituale  ma dall’intero viaggio costellato da difficoltà, sofferenze e pericoli. Il terzo stadio vede la reintegrazione nella sua esistenza con un nuovo stato, che vedrà riunite le identità sannita e romana.

   In Viteliú (pronuncia in italiano: "Viteliu")  il processo di passaggio all’età adulta ha come mentore il nonno paterno Gavio Papio Mutilo, il quale per il nipote costruisce il legame fra identità e memoria.

 

Denario sannita in argento del Bellum Sociale con legenda sul rectus MVTIL EMBRATVR in caratteri oschi,sul versus un toro nell’atto di abbattere una lupa, in exergo [C] PAAPI in caratteri oschi.

 

   La figura dell’Embratur, il capo supremo delle forze sannite, viene delineata con somma maestria da Nicola Mastronardi che ne descrive il valore, la saggezza, il peso dell’immenso dolore e amore che nutre per il suo popolo. L’anziano Embratur indica a Marzio i nomi di tutte le famiglie dell’Alto Sannio, ne ricorda le vicende, le imprese eroiche, perfino i soprannomi, oltre a menzionare gli appellativi delle valli, delle foreste, dei fiumi, dei santuari e degli dei sanniti. Alle persone, alla natura, alle divinità viene restituita la vita e l’identità grazie alla memoria.

   Gavio è storicamente quel Gaio o Caio Papio Mutilo comandante nel Bellum Italicum delle forze sannite in Campania e nel Sannio, unico tra i confederati ad assumere il titolo di embratur, “imperatore” nella lingua osca, dopo le vittorie del 90 a. C. Il suo nome si trova come C.PAAPI.MVTIL, o C.MVTIL, o MVTIL EMBRATVR in tanti denari d’argento coniati, quando si costituì la Confederazione Italica, dalla zecca di Corfinium Italica tra il 90 e l’89, in segno di sfida all’autorità romana e  come dichiarazione del progetto di uno stato rivale in Italia, nonché per sostenere le ingenti spese militari: su di essi si trova la legenda "ITALIA" in latino o "VITELIV" in osco.

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Denario in argento del Bellum Sociale,versus,Il giuramento dei Cinfederati della Lega Italica con gli otto popoli insorti

   Ad accrescere il carisma sapienziale di Gavio Papio Mutilo, nel testo egli è rappresentato come cieco a causa degli eventi bellici. Il paradosso del maestro cieco che apre la via e conduce alla meta è un paradosso apparente perché dall’antichità esiste l’idea che la perdita della  vista fisica è compensata dal possesso di una vista interiore che consente al saggio di vedere il dritto, il rovescio e il risvolto. Dai primordi vi è la certezza che collega la privazione di una facoltà vitale come la vista al godimento di vari poteri spirituali e soprannaturali. Tiresia è condannato da Atena alla cecità, ma gli viene accordato il dono della divinazione. Omero, poeta eccelso, viene descritto quale cantore cieco. 

 

 

 

 

   Gavio Papio Mutilo, privato della vista, è senz’altro figura del veggente cieco. È colui che non vedendo con gli occhi dei sensi, ha sviluppato una vista interiore che gli consente di vedere e leggere la realtà più e meglio degli altri. Gli permette di interpretare meglio le vicende passate. E, poiché dalla profondità e ramificazioni delle radici dell’albero dipende l’altezza del suo fusto e l’ampiezza della sua chioma, la stessa vista interiore di conseguenza gli permette di vedere il futuro.

   È lui a scorgere la via che il nipote Marzio, ignaro delle sue radici, deve percorrere per ritrovare la propria identità offuscata dalla sua dorata posizione romana. Una  identità che  coincide con il riscatto del suo popolo dalla condizione di nascondimento in cui versa, sconfitto ma non domato da quella Roma che gli italici chiamano la Lupa, volendo significare la famelica lupa che vuole cibarsi della libertà dei popoli italici.

   È il valoroso Embratur cieco a vedere il percorso che la sua gente ed i vari popoli italici dovranno compiere per conquistare un posto inter pares nella penisola, né contro Roma né sottoposti a Roma. Ecco allora affiorare nel testo e delinearsi in modo sempre più nitido, accanto al tema della guerra, il tema del dialogo e della pace. È proprio Gavio Papio Mutilo, il Capo supremo delle forze sannite ad affermare: “Gli innovatori devono armarsi non di spada, ma di pazienza e di immensa fede nelle loro idee. […] Un uomo ispirato […] non prenderà le armi, ma userà la parola e qualsiasi mezzo fuorché la violenza per vincere”[2]. Difatti: “La violenza è come un drago che soffia il suo fuoco contro uno specchio di metallo. Esso torna indietro e brucia chi l’ha utilizzata”[3]. Per l’Embratur sannita “in un solo caso combattere diventa necessario: quando ad essere attaccate sono la tua famiglia, la tua terra e la tua stessa vita”[4].

   Gavio Papio dirà al nipote:   “Ho imparato a leggere i segni dei tempi […] è ora di guardare al futuro con occhi nuovi. Non più guerra, ma unione delle forze e dei destini tra Viteliu e Roma. Sta già accadendo, e i superstiti del popolo da cui tutto ha avuto inizio non devono rimanerne fuori. Anche perché sono stati proprio i Safinos a pagare di gran lunga il prezzo più caro rischiando la scomparsa totale”[5].

   La moneta detta “Moneta della riconciliazione” coniata nel 69 a. C. reca sul rectus i profili affiancati di Honor (HO) e Virtus (VI), sul versus le personificazioni dell’Italia (ITAL) e di Roma (RO) che si stringono la mano.                                                       

                                                          

                                                                                                     

Denaro in argento detto Moneta della riconciliazione, 69 a. C.,sul rectus i profili affiancati di Honor (HO) e Virtus (VI), sul versus le personificazioni dell'Italia (ITAL) e di Roma (RO) che si stringono la mano

 

 

   La meta indicata dall’Embratur, a noi sembra, per conquistare un posto inter pares è la Pax Opus Justitiae. Non la Pax romana, quella che alla fine del I secolo a. C. per esaltare il divo Cesare Ottaviano Augusto – e, con lui, la stessa Roma - verrà sotto il profilo artistico mirabilmente celebrata attraverso i rilievi neoattici dall’Ara Pacis Augustae. La Pax romana è imposta con le armi, è una pace che i popoli dominati mal tolleravano, pronti a ribellarsi non appena si presentava l’occasione di affrancarsi dal giogo nemico per riconquistare la libertà. Alla base si trova il misconoscimento del rapporto di natura etica e consequenziale intercorrente tra pace e giustizia, tra diritto e sicurezza. "Et erit opus justutiae pax et cultus justitiae silentium et securitas usque in sempiternum"[6], aveva scritto il profeta Isaia nell’VIII secolo a. C.: la pace è frutto della giustizia e non può scaturire dalla concussione  dei diritti della persona, primo tra i quali è il diritto alla libertà. Precisamente, Viteliú. Il nome della libertà.



   [1]  EDWARD TOGO SALMON, Samnium and the Samnites, Cambridge 1967, trad. it., Il Sannio e i Sanniti, Torino 1995, pp. 421-422 ;  cfr. ADRIANO  LA REGINA, Dalle guerre sannitiche alla romanizzazione, in AA. VV., “Sannio, Pentri e Frentani dal VI al I sec. a. C., Catalogo della Mostra, Roma 1980, pp. 29-42; ADRIANO LA REGINA, I Sanniti, in G. Pugliese Carratelli (ed.), Italia omnium terrarum parens, Libri Scheiwiller, Milano 1989; AA. VV., Antiche genti d’Italia ( cat. ), Roma 1994 e 1995.                                                                                                                                                                                                                                    

                                                                                                                                                                                                                                                        

   [2]  NICOLA MASTRONARDI, Viteliú. Il nome della libertà, Itaca 2012, p. 276.

   [3] NICOLA MASTRONARDI, op. cit., p. 276.

   [4] NICOLA MASTRONARDI, op. cit., p. 202.

   [5]  NICOLA MASTRONARDI, op. cit, p.368.

   [6]  IS 32, 17.

 

 

Con preghiera di citare la fonte in caso di utilizzazione del testo per motivi di studio. 

 

 

 

 

  

 

 

 

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