Adelaide Trabucco

Adelaide Trabucco

Venerdì, 18 Gennaio 2013 09:32

'HUMANET': Pier Francesco Mastroberti

Una interessante mostra delle opere di Pier Francesco Mastroberti si è tenuta il 18 gennaio nella sede del Circolo Lucano "Giustino Fortunato" a Salerno.  

Come ho avuto occasione di rilevare nel presentare in quella sede l’esposizione,  Mastroberti è autore di elevato livello artistico, versatile ma schivo e riservato che dalle sculture in bronzo o terracotta, di formato minimale o di formato monumentale, ai Presepi in garza e gesso, ai pastelli, agli olî, alle caricature, manifesta sempre con garbo, ironia e profondità la sua acuta sensibilità e intelligenza in una produzione che, per diversità e varietà, è una sorta di mare magnum.

 

                                                                                               PIER FRANCESCO MASTROBERTI: Sant’Angelo Le Fratte – pastello a olio - 1988


Proponendo un filo rosso interpretativo che corre tra le varie opere, ci piace segnalare la scultura Humanet, in rete di metallo e gesso che già nel materiale della sua composizione rivela come l'Autore segnali il pericolo di una condizione generale nella quale il principio dominante è la rete, internet, dall'enorme capacità comunicativa costituita da una immensa regnatela fondata da migliaia di reti di computer sparse in tutto il mondo e collegate tra loro con le quali possiamo metterci in contatto. Probabilmente proprio la suddetta incommensurabile portata comunicativa che consente la relazione con ogni persona del pianeta ha fagocitato le energie, gli interessi, le attività dei soggetti fino a sostituirsi troppe volte alla vita reale.


PIER FRANCESCO MASTROBERTI: Humanet – rete metallica e gesso – 2008


Ecco allora il senso di Humanet che presenta l'umanità, un uomo e una donna, non soltanto soggetti alla stilizzazione artistica, ma addirittura a un processo di rarefazione che vede la scomparsa della struttura squisitamente umana delle ossa, dei muscoli, delle vene, della pelle e della conseguente definizione formale immediatamente riconoscibile del corpo umano. Al suo posto, la rete di 'computeriana' memoria avvolge e informa le persone, lasciando intuire la loro originaria dimensione. Della loro umanità sembra voler parlare il colore rosa cangiante che in tonalità a volte accese fino al violaceo, a volte delicatamente pastello, evoca la delicatezza della pelle, la tenerezza del corpo, il nascosto fluire del sangue.
Humanet è stato realizzato da Mastroberti nel 2008, ma già quattro anni prima il Nostro aveva creato la scultura Cavallo, un tema a lui molto caro al quale ha dedicato da sempre disegni e sculture in cui veniva alla luce la vitalità e l'aristocrazia dell'animale, sia che lo rappresentasse fermo, o in movimento, o durante il corteggiamento.L'opera, anch'essa in rete di metallo e gesso, sembrava preannunciare il pericolo di una progressiva perdita della vitalità specifica degli esseri della Creazione.


                                                                                                      PIER FRANCESCO MASTROBExRTI: Cavallo – rete metallica e gesso - 2004


Benchè nella scultura sia ancora pienamente riconoscibile il soggetto-cavallo, l'opera unisce l'espressività della rarefazione che investe la struttura ossea e corporea, con la positura del corpo dell'animale, fortemente significante nella lunga curva che partendo dal dorso, continua nel collo e nella testa piegandosi senza energia in direzione della terra, dando luogo ad un'opera d'arte dalla valenza significativa pienamente comunicativa.


Non diversamente, come ebbi a scrivere, “la pennellata fluida e sicura del nostro Autore dà vita ai Vecchi, avvolti in ampi e informi pastrani, quasi a mimetizzarsi e difendersi di fronte agli insulti del tempo e dell’esistenza. Amaramente curvi e rassegnati, o da soli seduti su una panchina, o serrati gli uni agli altri a cercare conforto nella comune sorte, invocano muti e con pudore uno sfiorare lieve di parola che rompa l’incantata prigione dei ricordi.

PIER FRANCESCO MASTROBERTI: Vecchi – olio su tela - 1990


La valenza evocativa dei Vecchi di Mastroberti è accentuata dai colori che l’Autore sceglie per rappresentarli: i bruni sordi, le ocre, i verdi terrosi” (Adelaide Trabucco, Presentazione dei dipinti e delle sculture di Pier Francesco Mastroberti, 1998). È la silente e intensa denuncia che riguarda la condizione di solitudine e fragilità di una fase vitale particolarmente soggetta al misconoscimento della sua ricchezza esperienziale che diventa sapienziale.

 



PIER FRANCESCO MASTROBERTI: Presepe. Pulcinella acquaiolo – garza e gesso - 2008


Una sapienza nascosta che traspare anche nella figura di Pulcinella, alla quale dedica tante sculture che immediatamente attraggono per la popolarità della maschera napoletana la quale rivela però nell’interpretazione di Mastroberti una drammaticità che riscatta e supera l’originario carattere rinunciatario e disfattista del personaggio teatrale napoletano e trattiene l’interesse dell’osservatore su un soggetto troppo famoso per non rischiare di essere 'bruciato'. “Le braccia chiuse al petto, le mani nascoste nelle larghe maniche a sottrarre alla vista il loro spasmodico contrarsi, il dorso incurvato a difendere il segreto delle ferite non dette. La celebre maschera nera, dal naso adunco di uccello rapace, diventa protezione e difesa di chi si cela per non essere ancora colpito, mentre la bocca rimane aperta nel grido e nel sorriso della pena, rifiutata e accolta” (Adelaide Trabucco, Ivi).
Non sembri irriverente l’accostamento, ma quel grido fa affiorare alla mente di chi scrive la sensibilità dell’Autore verso il tema del Crocifisso, interpretato svariate volte secondo iconografie diverse, ma sempre personali, tese a esprimere differenti momenti topici della Passio. L’interpretazione senz’altro più drammatica realizzata da Mastroberti si ispira all’iconografia del Christus Dolorosus e vede il Figlio di Dio volgere il capo verso l’alto e gridare a voce urlata al Padre la sua domanda di senso e di soccorso. Un grido che è urlo e pianto, invocazione e denuncia per le ferite e le sopraffazioni, i tradimenti e le delusioni.

 

PIER FRANCESCO MASTROBERTI: Il grido - bronzo – 1999


Un grido che è sempre forma nascosta della Caritas, del Figlio di Dio che se avesse voluto sarebbe potuto scendere dalla croce, ma che ha liberamente accettato di morire sentendosi abbandonato da tutti, perfino dal Padre, perché “Colui che non aveva conosciuto peccato, Dio lo trattò da peccato in nostro favore” (2 Cor 5, 21).


Salerno, 2013
 


Con preghiera di citare la fonte in caso di utilizzazione del testo per motivi di studio. 

 


Il libro di Adelaide Trabucco è frutto di prolungate e scrupolose ricerche condotte nell’Archivio Parrocchiale della Chiesa S. Giovanni Evangelista del borgo medievale fortificato di Chiauci, in Molise. Lo studio documenta la presenza più che millenaria della fattiva comunità della Terra Clavicorum, la Terra delle Chiavi, le sue antiche vicende storiche, le sue complesse vicissitudini, la fede, l’iniziativa e la creatività, non soltanto artistica, che hanno caratterizzato e sorretto  i suoi abitanti.

Il testo, pubblicato nell'agosto 2012, è accompagnato dalla Prefazione del Vescovo di Trivento, S. E. Domenico Angelo Scotti,  e dalla Presentazione di mons. Domenico Antonio Fazioli, Vicario Generale della Diocesi.

 Il libro, in formato A/4, consta di 256 pagine ed è accompagnato da un ricco apparato iconografico volto non soltanto a confermare i contenuti della ricerca, ma anche a comunicare attraverso le immagini quanto non sempre le parole sono capaci di esprimere.


Riportiamo in questa sede la Prefazione del Vescovo, S. E. Domenico Angelo Scotti:

 

 

Grazie di cuore all’autrice, la professoressa Adelaide Trabucco, che è stata proprio tanto brava nel raccontare, descrivere e far conoscere il frutto delle sue lunghe e minuziose ricerche su Chiauci, comunità veramente bella ed esemplare della nostra Diocesi.

 

Queste pagine, coinvolgenti e precise, hanno il segreto dell’incantevole e del fascinoso, cosa che ti costringe, una volta iniziata la lettura, a continuare o riprenderla immediatamente, se interrotta, tanto grande è il desiderio indotto per gustarne tutto il piacere che promana dalle opere d’arte descrittevi.

 

In un tempo come il nostro, nel quale sempre più forte è l’esigenza di riscoprire e rivalutare la propria identità e l’appartenenza ad una precisa comunità locale, questo testo è un esempio concreto di una testimonianza vera ed autentica di spiritualità attuale e feconda.

 

Ben vengano sussidi come questo per divulgare la nostra antica storia, le vicende passate e la fede che ha alimentato, sostenuto e illuminato la vita quotidiana dei nostri antenati, quelli stessi che ci hanno lasciato esempi così belli di arte e di religiosità.

 

Sono contento che questo libro esca proprio alla vigilia dell’anno della fede proclamato da papa Benedetto XVI: il futuro della religione per le nostre popolazioni ci sarà sempre perché è fondato e radicato su un passato ricco delle convinzioni profonde e dei sacrifici enormi fatti da coloro che ci hanno preceduto.

 

Plaudo e benedico l’iniziativa della professoressa Adelaide, nipote di una delle Presidenti diocesane di Azione Cattolica dello scorso secolo, e invito gli altri studiosi, innamorati delle polverose carte, a fare altrettanto per i propri paesi, per farli emergere splendidi e vitali agli occhi delle nuove generazioni. 

 

 

† Domenico Angelo Scotti

 

                                                                                                   Vescovo di Trivento 

 

 

 

Ancora, riportiamo la relazione tenuta dall'archeologo, storico ed erudito prof. Antonino di Iorio in occasione della presentazione del volume che si è tenuta in Roma a Palazzo Valentini, sede della Provincia, il 15 dicembre 2012.

 

Signore e signori,

 

innanzitutto un ringraziamento agli organizzatori di questo interessante incontro per avermi invitato alla presentazione di un saggio di grande interesse per coloro che amano le storie locali. Certamente la pubblicazione di Memorie storiche e artistiche di Chiauci e delle sue Chiese della Professoressa Adelaide Trabucco viene a colmare una lacuna e ad accrescere non poco la già lunga serie delle monografie locali relative alla nostra Regione Molise. 

   La monografia tratta mirabilmente alcuni aspetti della storia di Chiauci, comune dell’Alto Molise, noto nel campo dell’archeologia per la sua interessante cinta megalitica del Colle Sant’Onofrio a quota 950 metri sul livello del mare, di epoca sannitica, sito del quale ebbi a interessarmi alcuni anni fa, che meriterebbero maggiore attenzione per la sua importanza storica. Il Comune è anche noto per la sua originale e caratteristica cascata lungo il fiume Trigno, la famosa Foce, con un salto di ben 60 metri, recentemente scomparsa, perché ha dato origine ad un grande invaso che certamente valorizzerà turisticamente l’Alto Molise.  

   Chiauci è una località che ricordo con molto piacere per aver ivi svolto le mansioni di segretario comunale negli anni 1947-48 e tra i tanti amici ricordo con molto piacere il professor Trabucco, padre della scrittrice Adelaide, al quale mi legava una sincera amicizia. Anche per questo l’invito è particolarmente gradito. 

   Il saggio che oggi si presenta, dedicato alla mamma dell’autrice, professoressa Mattea Messina, si compone di circa 300 pagine e si arricchisce con le presentazioni del vescovo della diocesi di Trivento monsignore Domenico Angelo Scotti e del suo vicario generale, monsignore Domenicantonio Fazioli. 

   Purtroppo la tirannia del tempo non concede altro che un rapido excursus di questo prezioso volume che, tra l’altro, ha una ricchezza documentaria veramente eccezionale, documentazione conservata nell’Archivio parrocchiale e gelosamente custodita. In genere, gli uomini di storia e di cultura cercano di strappare al passato, anche il più remoto, fatti e notizie per offrirli in omaggio alla loro Madre Terra ed è questo che ha brillantemente fatto Adelaide Trabucco, dimostrando così grande attenzione ed amore per la Terra di origine del suo genitore. Il nobile fine si è perfettamente realizzato perché la sua fatica suscita non poco interesse e perché l’Autrice si dimostra una scrittrice dalla fertile penna in quanto collabora autorevolmente con giornali e riviste specializzate, nonché con diverse associazioni culturali, anche accademiche. 

   La sua è una pubblicazione intelligente che interessa non solo sul piano culturale, ma anche su quello turistico e pertanto ha già ricevuto un corale applauso, non solo dalla intera cittadinanza di Chiauci, perché costituisce un valido aiuto per una conoscenza anche turistica. 

 

   Non va dimenticato che la pubblicazione, scritta con stile semplice ed in forma piana, colma una lacuna perché allo stato odierno non esiste uno studio così ampiamente documentato e particolarmente interessante sull’originale chiesa parrocchiale di Chiauci del XVI secolo intitolata a San Giovanni Apostolo ed Evangelista. 

   È doveroso sottolineare che i numerosi argomenti sono stati tutti affrontati con un’accurata analisi dal punto di vista storico perché l’Autrice si è valsa di una ricca documentazione di prima mano e tutti gli argomenti sono stati esaminati in piena luce, con acutezza visiva e con esattezza scientifica. La monografia offre così un nitidissimo quadro sulla storia della Chiesa e ne illustra gli aspetti più svariati appunto perché costituisce un paziente lavoro di ricerca con abbondanza di particolari ed in modo veramente esauriente. Va subito sottolineato che il lavoro non presenta forzature di alcun genere per cui costituisce un vero modello di ricerca storica. 

   Per tali motivi è doveroso sottolineare che il saggio presenta numerosi pregi letterari, documentari, editoriali per cui a buon ragione è da considerarsi una monografia di carattere municipale che può autorevolmente collocarsi fra le migliori di carattere locale perché apporta originali contributi di informazione con sicuro senso critico. 

   Non potendo soffermarmi, unicamente per ragioni di tempo, sui numerosi e tutti interessanti argomenti che l’autrice ci ha svelato con tanta dovizia di particolari, necessariamente devo limitarmi ad una semplice elencazione degli argomenti trattati. Il lavoro inizia con l’argomento “Chiauci e la sua storia” seguito da quelli relativi alla descrizione accurata dell’Archivio parrocchiale e della Chiesa di S. Giovanni Evangelista, ai riti della consacrazione del 1727, al Corredo liturgico settecentesco, all’Altare maggiore, al quadro della Madonna dell’Arco, alla Cappella del SS. Sacramento, all’altare delle Anime del Purgatorio, alla Confraternita del S. Rosario, all’altare di S. Giorgio Martire, agli altari di S. Sebastiano e di S. Antonio di Padova, al rinnovamento settecentesco, ai riferimenti devozionali della Terra di Chiauci, al Pio Ospedale, alle Opere di carità, al fonte battesimale, al pulpito, all’organo liturgico, al campanile, ai Baroni de’ Mari della Terra di Chiauci, alla sacrestia, alle sepolture, alle Chiese extra moenia di S. Sebastiano e di S. Onofrio, agli interessanti ripristini del 1800, alla Chiesa madre, all’altare della Passione, alle Cappelle di S. Vincenzo e a quella di S. Michele Arcangelo.  

   Un ricordo particolare è stato riservato alla chiesa rurale di S. Onofrio, l’edificio di culto più antico del territorio, ove annualmente nel mese di giugno si svolge una grande festa popolare con il concorso di un gran numero di presenze provenienti da numerose località viciniori.  

   Nella monografia non mancano ricordi di storiche festività religiose, tra le quali si ricorda la processione in onore del santo protettore san Giorgio, la cui cappella un tempo era  jus patronato della locale Università. In suo onore veniva organizzata una processione solenne: il simulacro del Santo protettore veniva portato in  processione dalla Chiesa madre alla Chiesa di S. Sebastiano, dove veniva solennemente esposto per l’intera giornata. In serata il simulacro veniva riportato, sempre processionalmente, nella Chiesa madre, cantato il noto Fidem e ricollocato nella sua cappella. 

   Alle processioni di un tempo partecipavano numerosi sacerdoti e chierici provenienti dai paesi vicini, in massima parte da Bagnoli del Trigno. Nel 1773 se ne contarono ben 30, mentre nel 1776 furono chiamati per la processione i cosiddetti “Tamburrieri di Pietrabbondante” ed i suonatori di violino e di altri strumenti provenienti da Castel di Sangro. 

   Parlando dell’organo della Chiesa parrocchiale, molto opportunamente l’Autrice ha voluto ricordare un noto personaggio del posto: l’organista di Casa Reale a Napoli Giuseppe Diamante Mascia, nato nella seconda metà del 1700.

   Lo storico agnonese Ascenso Marinelli così ne parla: L’organo che lo rese immortale fu quello di Lucera fatto ai principi del 1800. È opera veramente ammirabile per il disegno, per la solidità, per la esattezza, per l’armonia delle parti, per la molteplicità e per l’ingegnosa combinazione strumentale che vi è, tanto da emulare i più celebri organi del suo tempo come quello di Montecassino, di Catania, gli altri di Palermo, di Napoli e via discorrendo. Durante la sua permanenza in Agnone, ove si era sposato e dove decedette nel 1832, costruì organi per le chiese di S. Emidio di Agnone, di Barrea, di Villa Santa Maria, di Sepino, di Torella, di Vinchiaturo, di Morcone, ... 

 

   Particolare attenzione è stata dedicata anche alla decorazione della Chiesa parrocchiale eseguita nella seconda metà del secolo scorso.

   Si tratta di interessanti affreschi sulla volta e sulle pareti eseguiti nel 1956 dall’artista Valeria Vecchia con la collaborazione del marito Lino Bianchi Barriviera, notoriamente conosciuti nel mondo artistico del Novecento. Gli affreschi eseguiti ricordano: L’agonia di Gesù nel Getsemani, san Giovanni Evangelista, sant’Onofrio, san Giorgio e il drago, la cattura di Gesù nell’Orto degli ulivi, la Dormitio Virginis ed altri ancora. Non va dimenticato che i lavori di decorazione eseguiti sono dovuti all’iniziativa del parroco dell’epoca don Livio Di Vincenzo, prematuramente scomparso, e del sindaco dell’epoca Antonio Di Salvo.  

   Tra i tesori artistici della Chiesa non manca la presenza del concittadino Erminio Trabucco, padre dell’Autrice. È sua opera l’Altare della Passione, elogiato dal Corriere della Sera per l’originalità, l’arditezza della composizione, la multiformità dell’estro creativo e la genialità della concezione. È stata anche ricordata l’altra opera del Trabucco, nota come la nuova fontana in piazza: l’opera si ispira all’antica tina di rame usata dalle donne per andare ad attingere l’acqua alla fonte e che, si legge nel testo, “riportavano a casa colma d’acqua collocandola senza sforzo apparente sul capo alteramente levato, con un portamento elegante e naturale che suscitava l’ammirazione dei forestieri”.

   Piace in proposito ricordare che il Trabucco ha voluto con questa sua originale opera ricordare una scena della cultura di ieri e, forse, anche della sua permanenza in Agnone ove insegnò e ove la lavorazione del rame era notoriamente tanto diffusa.

   Certamente l’Autrice ha inteso così ricordare il padre Erminio rievocando brevemente un artista noto non soltanto per le sue qualità professionali, la lealtà, l’amore per la pace e la giustizia, come lo giudicò il noto storico monsignor don Salvatore Moffa, perché fu una figura di grande rilievo culturale come giornalista, critico d’arte, amico della scuola e collaboratore artistico. 

   Ringrazio il cortese pubblico per l’attenzione e l’Autrice per avermi dato la possibilità di leggere un libro di vasta cultura. Sono certo che il lettore rimarrà oltremodo grato all’Autrice perché è un’opera così viva che non ha voluto dimenticare l’artista contemporaneo Antonio Mascia da Chiauci, figura molto nota nel campo artistico.

   Naturalmente auguro che presto l’Autrice dia alle stampe un suo ulteriore contributo per farci meglio conoscere la verità storica delle nostre contrade.

 

Grazie, grazie ancora.

                                                                      

                                                                                              Antonino di Iorio

 

Roma, 15 dicembre 2012

 

 

 Con preghiera di citare la fonte in caso di utilizzazione del testo per motivi di studio. 

 

 

 

 

 

 

Martedì, 09 Ottobre 2012 17:22

La Madonna della Misericordia o del Mantello

All'Anno Mariano Diocesano celebrato nella Diocesi di Salernoio-Campagna-Acerno nel 1996 risalgono una serie di ricerche svolte da Adelaide Trabucco sull'iconografia mariana. L’articolo presentato su “Agire” (sabato, 22 giugno 1996) viene in questa sede arricchito da uno studio iconografico in cui, seguendo per la ricerca un'impostazione ecumenica, rileva come le invenzioni iconografiche siano numerose e diversificate sia nell'Oriente sia nell'Occidente. Ecco allora che viene a coniugarsi l’espressione dell’appellativo Madonna del mantello con titoli diversi ma di analogo significato presenti nella tradizione occidentale e orientale, quali la Madonna della Misericordia, la Madonna della Divina Provvidenza; la Blachernitissa o Madre di Dio di Blacherne, antico santuario mariano di Costantinopoli; la Theotokos Platytera, la Madre di Dio più vasta dei Cieli;  la Protezione della Madre di Dio appellata anche Madre di Dio del Pokrov, la Santa Cintura che protegge come un manto i suoi fedeli che “sotto la sua protezione si rifugiano”.

   Il titolo investigato è antichissimo perché antichissima è l'idea di invocare la protezione della Vergine. Le sue origini sono rinvenibili nella più antica preghiera mariana conosciuta (II-III sec.): "Sotto la tua protezione cerchiamo rifugio, Santa Madre di Dio: "Sub tuum praesidium confugimus, Sancta Dei Genitrix, / nostras deprecationes ne despicias in necessitatibus, / sed a periculis cunctis libera nos, / o semper Virgo gloriosa ed benedicta”.

 

 

 

 

PIERO DELLA FRANCESCA: Madonna della Misericordia  - 1444-1464ca. - Pinacoteca Comunale di S. Sepolcro

 

 

 Con preghiera di citare la fonte in caso di utilizzazione del testo per motivi di studio. 

 

 

Il quadro della Beata Vergine del Santo Rosario di Pompei e Serafini, dipinto da Adelaide Trabucco nel 2007, è stato un atto di devozione per una grazia ricevuta attraverso la preziosa intercessione della Beata Vergine del Santo Rosario venerarata nel Santuario di Pompei, nella consapevolezza che altre grazie, tanto più numerose, le saranno palesi soltanto in Cielo.   

 

   All'usuale iconografia, l'Autrice ha voluto aggiungere l'immagine dei Serafini come presenza invisibile ma reale che di certo circonda la Madre con il Figlio Divino, e che si dispiega esplicitamente o implicitamente nell'iconografia rosariana nel corso dei secoli.    

 

 

Iconografia rosariana

 

di Adelaide Trabucco  

 

 

 

 

 

La preghiera del Rosario nasce nel XII secolo quando i monaci Cistercensi, partendo dalla tradizione di dedicare alla Vergine una corona di rose, elaborarono una speciale ghirlanda: una preghiera che chiamarono appunto Rosario, paragonata ad una mistica corona di rose offerte alla Madonna. Questa devozione viene perfezionata e resa popolare da san Domenico il quale, secondo l’asserzione del Beato Alano de la Roche, nel 1214 riceve il primo rosario dalla Vergine Maria che lo indica come rimedio per la conversione dei non credenti, per la salvezza dei peccatori e per sconfiggere l’eresia albigese. Fiorisce così la devozione del S. Rosario: suoi propagatori sono i Domenicani che  con la  loro predicazione lo divulgano nell’intera Europa e che hanno inoltre il merito di creare le Confraternite del Rosario.

Il frate domenicano Giovanni da Fiesole, al secolo Guido di Pietro, era un grande innamorato della Beata Vergine Maria e del Rosario. La tradizione narra che, giovane frate, ritornava una sera al convento, recitando il Rosario. Attraversava la campagna. Gli apparve la Regina del Cielo; tanti Angeli le stavano vicino, cantando ed intrecciando una corona di rose. Il frate interruppe la recita del Rosario per contemplare quella scena di Paradiso. Gli Angeli interruppero pure il canto e lasciarono incompiuta la corona di rose. Sorpreso, il Beato Angelico ripigliò la preghiera e gli Angeli ricominciarono a cantare. Ad ogni Ave Maria, una nuova rosa veniva inserita nella corona. Terminato il Rosario, il serto di rose fu presentato dagli Angeli a Maria. Il frate non dimenticò più la visione. Si sforzò di riprodurla in pittura. Trascorse la vita nella preghiera e nel lavoro, lasciando una grande quantità di quadri, rappresentanti la Madonna e gli Angeli.

Venne chiamato Beato Angelico per la sua capacità di ricreare l’atmosfera angelica che circondava i soggetti religiosi che ritraeva nei suoi dipinti, rinnovando nel Quattrocento l’arte sacra secondo la nascente visione rinascimentale alla quale aderì in modo sublime in termini di luce, di colore e di spirituale grazia. Negli ultimi istanti della vita, mirò a lungo in alto, quasi trasfigurandosi in viso per l'emozione; poi esclamò: “La Madonna è molto più bella di quanto io l'abbia dipinta!” E spirò. E’ significativo che  fra Giovanni  è l’unico artista, in tutta la storia della Chiesa, nel cui processo canonico  non sono stati allegati scritti  teologici o spirituali ma il catalogo completo dei suoi capolavori di arte e di fede. Sempre  Giovanni Paolo II il 18 febbraio 1984 lo ha proclamato Patrono Universale degli Artisti. 

 


BEATO ANGELICO: Madonna col Bambino, Angeli e Santi - (part.) - 1448 - Galleria Nazionale dell'Umbria, Perugia 

 

L’orazione del Rosario riceve il suo battesimo ufficiale nel 1569 ad opera del papa san Pio V che emana una specifica bolla, Consueverunt Romani Pontifices. In concomitanza con la struttura definitiva della preghiera, si origina l’iconografia riguardante la Beata Vergine del Santo Rosario della quale la prima rappresentazione conosciuta è la silografia che orna il frontespizio della seconda edizione dello Statuto (1477) riguardante la prima Confraternita del Rosario eretta a Strasburgo nel 1475 dal frate Giacomo Sprenger priore dei domenicani di Colonia. La città nel 1474 aveva scongiurato il pericolo della guerra grazie alla protezione della Vergine invocata, su ispirazione di Sprenger, mediante il Rosario. Superato il pericolo della guerra, viene istituita la Confraternita: i primi iscritti sono l’imperatore Federico III e il legato pontificio, vescovo Alessandro Malatesta.

 

 

Sono i personaggi raffigurati nella silografia: la Beata Vergine in trono col Bambino, entrambi ritratti mentre porgono corone di rose. Il Bambino si volge al vescovo Malatesta, davanti al quale è inginocchiato il priore Sprenger, la Vergine si rivolge a Federico III, imperatore del Sacro Romano Impero, ai piedi del quale è inginocchiata la moglie Eleonora d’Aviz, infanta del re di Portogallo, Edoardo.

 

 

Alla prima Confraternita istituita in Italia dal domenicano tedesco Giovanni di Erfordia, nella chiesa di S. Domenico di Castello a Venezia, risale un secondo prototipo di iconografia del Rosario: la copertina dello Statuto presenta una xilografia stampata verso il 1480 - attualmente al Museo Nazionale Germanico di Norimberga - che vede la Beata Vergine in piedi, senza il Bambino Gesù, le mani giunte in preghiera., circondata da Angeli in volo, mentre ai suoi piedi sono inginocchiati il frate Giovanni di Erfordia e un laico elegantemente vestito dalle cui mani giunte pende la corona del Rosario – forse Leonhard Vilt, fondatore della confraternita del Rosario a Venezia.
 

ALBRECHT DÜRER: La Festa del Rosario - 1506 - Narodni Galerie, Praga

 
La Festa del Rosario, celebre dipinto di Dürer, si ispira all’iconografia della Confraternita di Colonia e ad altri precedenti iconografici legati a questo tipo di devozione come i Rosenkranzbild (immagini del Rosario) in cui la Madonna è raffigurata nell'atto di distribuire serti di rose bianche e rosse al popolo in venerazione, presenti i membri di ogni classe sociale. In Dürer le supreme autorità della terra, dal Pontefice Sisto IV all'Imperatore Federico III (che l'Artista ritrasse con le sembianzr del figlio Massimiliano I), al cospetto della Vergine hanno deposto in terra rispettivamente il triregno e la corona imperiale, chinandosi con devozione per ricevere le ghirlande di rose che la Vergine e il Figlio pongono sul loro capo: le uniche corone ammesse sono quelle del Rosario distribuite dalla Beata Vergine e dal Bambino, aiutati da san Domenico e dagli Angeli, a tutti i presenti, dall'Imperatore al soldato, dal Patriarca di Venezia, al Cappellano, ai semplici fedeli. Non è un caso che tutti i devoti del Rosario appartengano alle varie classi sociali: all'interno del popolare scritto devozionale Il Rosario della gloriosa Vergine Maria, nel capitolo "Ammonitione per entrare nella fraternità", si sottolinea che la Confraternita del Rosario "abbraccia tutti, cioè ricchi e poveri, huomini e donne, signori, prelati, re et principi, et niuno è escluso" (dall'edizione di Venezia, presso Gio. Antonio Bertano, 1587). L'opera è scritta a Venezia nel 1521 dal domenicano Alberto di Castello al quale si deve anche la struttura del Rosario di 15 Pater noster e di 150 Ave Maria, semplificata rispetto alla complessità della precedente configurazione, e codificata nella bolla Consueverunt Romani Pontifices, datata 12 settembre 1569 - dove per la prima volta si trova una precisazione spirituale di fondamentale importanza, ovvero che la meditazione dei Misteri del Rosario (non la meccanica ripetizione delle preci) è la condizione necessaria per ottenere le indulgenze.

 

 

ANTOON van DYCK: La Madonna del Rosario con san Domenico e santa Caterina da Siena e i santi Vincenzo Ferreri, Oliva, Ninfa, Agata, Cristina e Rosalia  - 1625-1627 - Palermo, Oratorio di S. Domenico, Presbiterio

 

 Gli artisti italiani predilessero una diversa iconografia che valorizzava il ruolo svolto da san Domenico: la Vergine, su una nuvola, si mostra a san Domenico inginocchiato e gli porge la mistica corona, come nella suggestiva pala d’altare di Antoon van Dyck commissionata in occasione della peste che aveva colpito Palermo nel 1624, e consegnata nel 1628. Il dipinto raffigura la Madonna del Rosario con san Domenico e santa Caterina da Siena e i santi Vincenzo Ferreri, Oliva, Ninfa, Agata,Cristina e Rosalia, e fu realizzato per volere della Compagnia della Madonna del Rosario, che nel 1574 aveva fatto edificare il mirabile Oratorio del Rosario di S. Domenico accanto all'omonima chiesa.


 ADELAIDE TRABUCCO: Madonna del S. Rosario di Pompei e Serafini. San Domenico - ( part.) - 2007 

 

 

L'iconografia della pittura italiana privilegiò anche un altro schema iconografico che presenta la Beata Vergine in trono con il Bambino sul braccio destro: la Madre di Dio dona il Rosario a santa Caterina, il Figlio lo porge a san Domenico. Lo schema nasce nell'ambito dei Domenicani del Convento di Castello a Venezia - un'immagine si trova nella succitata opera di Alberto di Castello - e su di esso si fonda l'iconografia della Vergine del Rosario di Pompei (Cfr. Gilles Gérard Meersseman, Ordo Fraternitatis. Confraternite e pietà dei laici nel Medioevo, 3 voll., Herder, Roma 1977, vol. 3, pp. 1163-1218). 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

ADELAIDE TRABUCCO: Madonna del S. Rosario di Pompei e Serafini. Santa Caterina - (part.) - 2007  



 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

                                                                                                                                                                                               

                                                                                                                           

La preghiera del Rosario riceve un grande impulso dalla vittoria di Lepanto da parte della  flotta cristiana partita per far fronte ai Turchi che minacciavano l’integrità e l’identità territoriale, culturale e spirituale dell’Europa. Il pontefice san Pio V si adoperò in tutti i modi per unire i cristiani in una Lega. Così l'imperatore, il granduca di Toscana, Venezia, l'Ordine di Malta e parecchi principi italiani armarono una flotta. La Lega Santa partì dal porto di Messina il 7 ottobre 1571 verso le 12 del mattino e in vista della flotta turca (nel golfo di Patrasso, nell’area denominata Lepanto) su ogni nave fu celebrata la Messa, mentre i frati Francescani, Domenicani e Gesuiti a prora delle galere tenevano i crocefissi alzati e benedicevano i soldati. Le fonti storiche riportano che anche il Papa a quell’ora si raccoglieva in preghiera. La feroce battaglia durò cinque ore e costò la vita a circa 8.000 cristiani, consentendo la liberazione di 15.000 schiavi cristiani e segnando la fine della supremazia turca nel Mediterraneo.

 

 


 PAOLO VERONESE: Allegoria della battaglia di Lepanto - 1572 - Gallerie dell'Accademia, Venezia  

Paolo Veronese dedicò alla battaglia di Lepanto due rappresentazioni, nelle quali si ritrova il suo specifico cromatismo luminoso e intenso. Un’opera si trova nel Palazzo Ducale, Sala del Collegio ed è un quadro votivo, denominato Sebastiano Venier ringrazia il Salvatore per la vittoria di Lepanto, proposto al concorso ufficiale istituito dalla Repubblica di Venezia nel 1571 per la celebrazione della battaglia di Lepanto: in alto è raffigurato Cristo imperator mundi nella gloria celeste, ai suoi piedi in adorazione Sebastiano Venier, che diverrà doge di Venezia, e Agostino Barbarigo. Lontana strutturalmente è l'Allegoria della battaglia di Lepanto - appellata anche La Vergine accoglie le suppliche dei Cristiani e permette la Vittoria di Lepanto 7 ottobre 1571. La tela rappresenta due scene ben distinte ma fortemente collegate fra loro. Nello spatium coeli la personificazione di Venezia (o della Fede) appare avvolta in un candido manto mentre viene presentata alla Madonna.s L'accompagnano i santi Pietro, Rocco, Giustina e Marco. In secondo piano, sempre nella zona superiore, si trova una schiera di Angeli. Nello spatium terrae viene raffigurata la battaglia navale di Lepanto.

 

San Pio V, che aveva ordinato la recita del Rosario in tutta la Cristianità, il 7 ottobre vide soprannaturalmente la vittoria prima ancora che gli ambasciatori trasmettessero la notizia a lui e a tutta Europa – la notizia giunse a Roma per via ‘ordinaria’ il 21 ottobre -  e attribuì la vittoria a “Maria aiuto dei cristiani”, stabilendo che il 7 ottobre fosse commemorata S. Maria della Vittoria. Un dipinto di Lazzaro Baldi, datato 1673 e conservato nel Collegio Ghislieri di Pavia dove san Pio V aveva insegnato teologia, raffigura san Pio V mentre ha la visione della battaglia di Lepanto.

   Papa Gregorio XIII in seguito istituì definitivamente il giorno 7 ottobre in onore della Madonna del Rosario. In tutta Europa le nazioni festeggiarono l’evento, basti pensare che la regina Elisabetta I d’Inghilterra, benché scomunicata dal pontefice, considerò Lepanto un trionfo dell’intera cristianità, una garanzia di sopravvivenza per i valori che reggevano l’Europa e ordinò alla chiesa Anglicana di indire cerimonie di ringraziamento a Dio. A Venezia la vittoria fu celebrata intonando il Te Deum di ringraziamento. Il Senato Veneto, che pure era composto da uomini fieri e addestrati a sfidare i più gravi pericoli in mare e in terra, attribuì alla Madre di Dio il merito principale della vittoria e sul quadro fatto dipingere nella sala delle sue adunanze fece scrivere queste parole: “Non virtus, non arma, non duces, sed Maria Rosarii, victores nos fecit”, ovvero, “Non il valore, non le armi, non i condottieri, ma la Madonna del Rosario ci ha fatto vincitori”.

 

Degno di attenzione è il dipinto di Grazio Cossali, S. Pio V attribuisce alla Madonna del Rosario il merito della vittoria di Lepanto (1597, Chiesa di Santa Croce di Bosco Marengo, vicino Alessandria). Nello spatium coeli la Beata Vergine dona il Rosario a san Domenico, mentre il Bambino lo consegna  a santa Caterina che gli indica il luogo della battaglia di Lepanto. Nello spatium terrae san Pio V si rivolge con lo sguardo allo spettatore e con la mano gli mostra i personaggi celesti, veri artefici della vittoria. Alla sinistra del pontefice si scorge suo nipote, il cardinale Michele Bonelli che aveva guidato i negoziati per costituire la lega delle nazioni cristiane. Alla destra di san Pio V sono raffigurati in atteggiamento di preghiera l’imperatore Filippo II e il doge Alvise I Mocenigo. In molti quadri dipinti dopo la battaglia di Lepanto, difatti, compaiono, insieme con la Madre di Dio ed il Bambino Gesù, a san Domenico e santa Caterina da Siena,  anche gli artefici della Lega Santa contro i turchi e della vittoria di Lepanto: san Pio V, l’imperatore Filippo II, Don Juan d’Austria, fratellastro dell’Imperatore e comandante della flotta cristiana, Anna d’Austria, consorte dell’Imperatore ed altri protagonisti storicamente individuabili. Accanto ad essi vengono raffigurati anonimi gentiluomini, dame, suore, religiosi, contadini, popolani, tutti accumunati dalla preghiera-azione del Rosario. 

 

 


GIOVAN BATTISTA SALVI detto IL SASSOFERRATO: Madonna del Rosario con san Domenico e santa Caterina da Siena - 1643 - Basilica di S. Sabina, Cappella di santa Caterina da Siena, Roma

 A partire dalla prima metà del XVII secolo, l’iconografia del Rosario non mostra più con frequenza i personaggi evocanti la vittoria di Lepanto, ma si presenta nello schema piramidale che vede all’apice la Beata Vergine con il Bambino, e in basso san Domenico e santa Caterina, iconografia alla quale si riferisce anche l’artista che dipinse il famoso quadro della Beata Vergine di Pompei, ispirandosi molto probabilmente alla Vergine del Rosario realizzata nel 1643 da Giovanbattista Salvi detto il Sassoferrato, e conservato nella basilica paleocristiana di S. Sabina a Roma. Il capolavoro del Sassoferrato associa l'armoniosa serenità della Vergine, figura di atmosfera raffaellesca, con l'emotivo, vibrante dinamismo di santa Caterina, che anticipa la santa Teresa d'Avila del Bernini nella Cappella Cornaro in S. Maria della Vittoria.

 

 

Descrive la vicenda straordinaria del beato Bartolo Longo l’Arcivescovo di Pompei Carlo Liberati: «Ci fu un uomo mandato da Dio in questa valle: si chiamava Bartolo Longo. Veniva dalle Puglie. Correva l’anno del Signore 1872. I cattivi Maestri del primo Ottocento l’avevano fatto smarrire sui vicoli ciechi dell’agnosticismo, del razionalismo, dell’ateismo, nonostante avesse ricevuto una buona educazione religiosa. Ma due angeli, il Prof. Pepe, laico, e il P. Radente, domenicano, e una donna eccezionale, oggi Beata, Caterina Volpicelli, lo ricondussero sulle vie del Signore e gli restituirono la gioia di vivere. Qui a Pompei, in un non precisato giorno dell’ottobre 1872, attraversando i campi della Contessa Farnararo De Fusco che lo aveva chiamato ad amministrare, una voce misteriosa gli si fece sentire dal profondo dell’intelligenza, della coscienza e del cuore e gli disse: “ Se cerchi salvezza, propaga il Rosario. È promessa di Maria. Chi propaga il Rosario è salvo!” La campana di mezzogiorno suonava l’Angelus Domini. Di chi era la voce? Gli aveva parlato la Vergine Maria. Dopo un certo smarrimento e la preghiera sulla nuda terra, riprese il cammino. Ma era diventato un altro: come Paolo sulla via di Damasco. La Madre del Signore e nostra l’aveva atteso e trasformato. Da quel momento e dall’anno 1875 quando la Provvidenza gli fece pervenire questa effigie della SS.ma Vergine del S. Rosario ora venerata in tutto il mondo, qui sbocciarono miracoli da non potersi contare come frutti copiosi dell’albero della fede. Nacquero prodigi come sbocciano primule, ciclamini, iris nel silenzio del bosco» (Saluto di S. E. mons. Carlo Liberati Arcivescovo Prelato di Pompei al Santo Padre Benedetto XVI - Pompei, 19 ottobre 2008).   

   Il beato Bartolo Longo cercava un’immagine della Madonna del Rosario dinanzi alla quale la nascente Confraternita di Pompei si soffermasse in meditazione durante la preghiera. È noto che quando il 13 novembre 1875 il beato Bartolo Longo vide il quadro presso il Conservatorio del Rosario dov’era la proprietaria, sr Maria Concetta de Litala, rimase esterrefatto per la bruttezza del dipinto. È altrettanto noto che, non potendo fare altrimenti per la mancanza di tempo e di denaro, fece ospitare la tela sul barroccio di un carrettiere che ritornava a Pompei portando il letame delle stalle di Napoli da vendere come concime ai contadini della Valle di Pompei. Al riguardo possiamo commentare che la kenosis della Madre per la nostra salvezza non fu inferiore a quella del Figlio.   Le condizioni estetiche del dipinto richiesero l’intervento di numerosi restauri prima di poterlo esporre alla venerazione dei fedeli. I ripristini riscoprirono anche l’originaria immagine di santa Caterina da Siena, nascosta dietro le sembianze di santa Rosa da Lima, canonizzata alla fine del secolo XVII, epoca a cui si fa risalire la realizzazione del quadro. Evidentemente la popolarità della santa peruviana suggerì un cambiamento all’artista riguardo la beata da raffigurare.

 

 


 

Quando, dopo il restauro, il quadro venne esposto alla venerazione si osservò da parte dei fedeli e del beato Bartolo Longo un graduale, progressivo ingentilimento dei lineamenti della Beata Vergine. Nella Storia del Santuario scrive il Beato: “Da quel giorno cominciò nella  fisionomia della Celeste Regina a ravvisarsi una bellezza, una maestà e una confidenziale dolcezza, che non si ravvisavano innanzi. […] napoletani e forestieri i quali qui pervengono ogni giorno, riconoscono in questa Immagine qualche cosa che attira ad ammirarla, non per il magistero di arte, non essendo questa certamente una delle Vergini di Raffaello, ma sì invece per la forza arcana che s’impone, e trae, quasi senza volerlo, ad inchinarsi a pregare”.

  

 

 

Sono innumerevoli le grazie ottenute per intercessione della Beata Vergine del Rosario, testimoniate sia da umili ex-voto di ringraziamento sia da pregiati doni. A proposito di questi ultimi, il beato Bartolo Longo scrive del cumulo di pietre preziose di grande valore che “ornano artisticamente la celestiale Immagine, e sono come tante voci di fedeli, che da ogni parte del mondo attestano le grazie della Vergine Santissima di Pompei”.

 


Le pietre preziose che ornavano il dipinto divennero così numerose da costituire un pericoloso sovraccarico per la tela, sollecitando da parte del vescovo Aurelio Signora la necessità di un restauro che ebbe luogo nel 1965 per opera  dei Benedettini Olivetani i quali dirigevano l’Istituto di Restauro del libro a Roma.

 Il primo intervento fu riportare il dipinto su una nuova tela, poiché quella primitiva risultava gravemente danneggiata dai fori realizzati per applicare le gemme. Successivamente si procedette a riprendere l’immagine originaria del quadro. Nel togliere i vari strati di colore, l’azzurro oltremare del manto della Madonna lasciò il posto a un bleu scuro a riflessi verdi, con orlatura d’oro ai lembi. Venne riscoperto il piede destro della Vergine Maria, prima nascosto dalla veste. Alla base del trono ai piedi della Madre di Dio apparve un libro, che potrebbe essere la Bibbia oppure più presumibilmente la Regola dell’Ordine Domenicano, come segno dell’affidamento alla Vergine del Rosario compiuto da parte di san Domenico e santa Caterina i quali pongono sotto la sua protezione l’Ordine (cfr. Salvatore Sorrentino, Iconografia del Rosario, “Il Rosario e la Nuova Pompei”, 2008-2009).

   A conclusione del restauro, il 23 aprile 1965 il pontefice Paolo VI incoronò nella basilica di S. Pietro la celeste rappresentazione. Le corone della Madre e del Figlio e la corona di dodici stelle che circonda entrambi non furono poste sulla tela, bensì su una lastra trasparente di plexiglass collocata a qualche centimetro da essa.



 

La sacra immagine è ritornata a piazza S. Pietro per desiderio del beato Giovanni Paolo II che nel 2002 volle firmare accanto ad essa la Lettera Apostolica Rosarium Virginis Mariae nella quale introdusse i Misteri della Luce da lui elaborati, indicendo contestualmente l’Anno del Rosario.

   Era stato papa Giovanni Paolo II a beatificare il 26 ottobre 1980 Bartolo Longo che come pochi seppe rendere l’amore e la devozione verso la Beata Vergine del Rosario, un gesto concreto d’amore cristiano verso chi ha più bisogno: istituì per le opere sociali un orfanotrofio femminile, consegnandolo alla dedizione delle suore Domenicane Figlie del Rosario di Pompei, da lui fondate. Diede origine all’Istituto dei Figli dei Carcerati in controtendenza alle teorie di Cesare Lombroso, fondatore dell’Antropologia criminale, il quale, influenzato dal Positivismo francese e inglese, asseriva l’ereditarietà in senso deterministico dei comportamenti criminali che renderebbe impossibile l’adattamento alla società del soggetto che delinque e dei suoi discendenti, in un orizzonte dov’è assente sia la libertà umana sia la Grazia.  

 

Bartolo Longo chiamò a guidare l’Istituto i Fratelli delle Scuole Cristiane. Ancora, fondò nel 1884 il periodico “Il Rosario e la Nuova Pompei” che a tutt’oggi si stampa in centinaia di migliaia di copie, diffuse in tutto il mondo: la stampa era affidata alla tipografia da lui istituita per dare un avvenire ai suoi orfanelli. Diede vita associandoli al Santuario ad asili, scuole, ospizi per anziani, laboratori, l’ospedale, la Casa del pellegrino. Nel 1893 Bartolo Longo offrì al papa Leone XIII la proprietà del Santuario e di tutte le opere pompeiane; qualche anno più tardi rinunziò anche all’amministrazione che il papa aveva lasciato alla sua cura.

 

  

 

 L' Arcivescovo e Delegato Pontificio del Santuario, mons. Carlo Liberati, ha ripreso e attualizzato le opere sociali legate al Santuario mettendole in collegamento con le problematiche della società odierna, particolarmente con i drammi contemporanei legati all’infanzia  e all’adolescenza. Citiamo la  “Comunità Incontro” per il recupero dei tossicodipendenti e degli alcolizzati; il “Gruppo  Appartamento” costituito per l’ospitalità residenziale delle giovani prossime ai 18 anni o già maggiorenni; la “Casa Emmanuel” per l’accoglienza di gestanti, madri e bambini in difficoltà; le sedi del “Centro di Aiuto alla Vita” (CAV) che sostiene donne in difficoltà che decidono di non abortire, e che accolgono la vita nascente, con la certezza di essere poi dal CAV aiutate; il “Movimento per la Vita” (MpV) che anima e promuove iniziative per difendere la vita dal momento in cui sboccia nel grembo materno fino alla fine; il Centro di Ascolto “Myriam” aperto particolarmente all’accoglienza delle donne immigrate; la Casa famiglia “Giardino del Sorriso”, per l’accoglienza residenziale di minori fino a 10 anni: tutte opere fiorite intorno alla Basilica della Beata Vergine del Santo Rosario di cui è in atto il restauro. Tutte opere sorte nell’intento di continuare a  tradurre le parole del Vangelo in opere.

 

 


 

 

 

Con preghiera di citare la fonte in caso di utilizzazione del testo per motivi di studio.   

 

 

 

 

 

Domenica, 16 Ottobre 2011 21:05

Mirella Monaco

  L’articolo, pubblicato sul settimanale “Agire” (7 gennaio 1989), riporta la presentazione della  prima mostra personale dell’artista Mirella Monaco che si tenne  dal 7 al 18 gennaio 1989 nella Chiesa di S. Apollonia a Salerno. Ho avuto modo di conoscere le ultime opere della  pittrice e di  apprezzare la sua interessante evoluzione, da una gestualità ampia e ferma che investiva il colore e le sue coniugazioni fino a giungere alla riscoperta del gusto riguardante la definizione della forma.

   Permane in Mirella Monaco il privilegiare scelte coloristiche essenziali le quali, nel loro cromatismo intenso e dissonante, sono la veste indossata da un travaglio interiore così violento da debordare oltre la delucidazione del disegno e avvertire l’esigenza di esplicitarsi anche nella parola scritta.

   Ci piace rinnovare l’augurio che formulammo in occasione della sua prima personale e che gli  antichi sogni possano essere linfa tenace per un futuro di luce…

 

Con preghiera di citare la fonte in caso di utilizzazione del testo per motivi di studio. 

 

Domenica, 09 Ottobre 2011 18:12

Maria nell'Ascensione

 La diocesi di Salerno-Campagna-Acerno indice nel 1996 l’Anno Mariano Diocesano.

   Adelaide Trabucco approfondisce il tema mariologico all’interno delle creazioni artistico e, seguendo per la ricerca un'impostazione ecumenica, rileva come le invenzioni iconografiche siano numerose e diversificate sia nell'Oriente sia nell'Occidente. Nel seguente articolo pubblicato su "Agire" (25 maggio 1996), l'Autrice ricerca la presenza della Beata Vergine Maria nell’Ascensione del Figlio, una presenza che non è menzionata nel Vangelo, ma che si ritrova nella tradizione liturgica e iconografica.

 

  


                                   

 

 

 Con preghiera di citare la fonte in caso di utilizzazione del testo per motivi di studio. 

 

 

 

  

                                     

 

                        

 

Domenica, 12 Giugno 2011 18:18

Il procedere della Resurrectio in Avagliano

Proponiamo la presentazione della scultura Resurrectio di Vincenzo Avagliano, che  ha avuto luogo nella cerimonia di inaugurazione  avvenuta il 14 maggio 2011 a  Castel San Giorgio. L'opera è stata posta su un bastione del sagrato che collega la Chiesa parrocchiale di S. Maria delle Grazie e la chiesa settecentesca di Maria SS. Immacolata curata dell'omonima Arciconfraternita.

 

 

 

Vincenzo Avagliano e il procedere della Resurrectio

 

 di Adelaide Trabucco

 

 

Non sono frequenti le opere in scultura che hanno come tema la Risurrezione. Tra gli scultori che  si sono cimentati con il suddetto soggetto ricordiamo Francesco Messina: nella Risurrezione di San Giovanni Rotondo rappresenta Cristo il quale nel mantello  che gli fa corona porta con sé il vibrare tempestoso dell’evento. Ancora, Pericle Fazzini nella Risurrezione della Sala Nervi, la Sala delle Udienze in Vaticano, Cristo si eleva risorgendo da un foltissimo intrico di forme semiastratte che vogliono significare l’Orto del Geetsemani.    

   Come mai è così poco frequente tale argomento in scultura? La Risurrezione è un tema che sotto il profilo artistico richiede l’espressione della dinamica, per quanto oggettivamente impenetrabile essa sia, legata all’evento del passaggio dalla morte alla vita: è evidente che la materica staticità di una scultura in quanto tale è in antitesi con il movimento.  
  Ricordiamo il tentativo, assunto poi a valore paradigmatico, di visualizzare il movimento in scultura operato da Umberto Boccioni, in Forme uniche nella continuità dello spazio.  

  Ebbene, proprio il coniugare la dimensione della scultura con la dimensione del movimento è la sfida che accoglie e vince l’opera di Vincenzo Avagliano. In Resurrectio l’artista fa vedere il processo del percorso dalla morte alla vita: Cristo si stacca dalla croce e si rivela nelle sue sagome corporee che si succedono l’una dopo l’altra, quasi a mostrare i vari passaggi dell’avvenimento misterioso per eccellenza.  

   Cristo: le braccia aperte in un gesto che dalla crocifissione trapassa nella risurrezione verso la quale Egli procede inarrestabilmente, il polso destro legato al braccio della croce, il polso sinistro che ancora mostra il laccio che lo legava, ma ormai libero e staccato dal legno, le braccia protese in avanti a varcare e superare i limiti della materia, del tempo e dello spazio.  

   Cristo risorge non dal sepolcro, ma direttamente dalla Croce, a sottolineare come per l’Uomo-Dio la morte sia tutt’uno con la risurrezione, in quella inscindibile unità espressa dall’annuncio apostolico delle origini, quando la Chiesa nascente proclamava il cherigma di Cristo-morto-e-risorto.   

   A sottolineare, anche, come dal sacrificio della croce e quindi dalla sofferenza nasca la vita, per se stessi e per gli altri.   

   Nei mosaici di Mirco Ivan Rupnik, dalla Cappella Redemptoris Mater in Vaticano, al Convento delle Orsoline a Verona, la Risurrezione di Cristo, che nell’iconografia bizantina si svolge come Discesa agli Inferi dove il Signore discende per riportare con sé le anime dei giusti, il Cristo, luminoso e carico di vitale energia, si staglia contro il buio fitto che significativamente allude alle tenebre degli inferi. Parimenti il Cristo di Vincenzo Avagliano risorge nella sua imponenza michelangiolesca: una realtà nuova, non pienamente trasfigurata nel corpo di luce e che conserva ancora i segni delle lesioni dove san Tommaso Didimo, il gemello della nostra incredulità, commenta mirabilmente sant’Agostino, pose le sue dita e toccò le trafitture delle ferite.   

   Una materia dove, in un rapporto tumultuoso di chiari e di scuri, la luce combatte con le ombre e vince, affermandosi in un corpo che si staglia contro il suo stesso corpo inchiodato sulla croce, ancora avvolto dal mistero tenebroso della morte.  

   Quel  mistero che permane percepibile nel viso del Cristo, gli occhi socchiusi a guardare indietro, a non dimenticare quelli che rimangono avvolti nelle tenebre e nell’ombra di morte che egli stesso, Uomo-Dio, ha attraversato: “Poiché dunque abbiamo un megas archiereus, un grande sommo sacerdote che ha attraversato i cieli, Gesù, Figlio di Dio, manteniamo ferma  la professione della nostra fede. Infatti non abbiamo un sommo sacerdote che non sappia compatire le nostra infermità, essendo lui stesso provato in ogni cosa, a somiglianza di noi, escluso il peccato. Accostiamoci dunque con fiducia al trono della grazia, per ricevere misericordia e trovare grazia ed essere aiutati al tempo opportuno” (Eb 4, 14-16).

 

 

 

 Con preghiera di citare la fonte in caso di utilizzazione del testo per motivi di studio. 

 

 

 

"Comunicare attraverso l'arte" è la chiave interpretativa attraverso la quale Adelaide Trabucco ha presentato i dipinti di Arnaldo Prete e Francesco Zona, due studenti del Liceo Artistico "Andrea Sabatini" di Salerno. La loro insegnante di sostegno, la prof.ssa Gisolfi, è stata l'ispiratrice di un'esposizione ricca di fascino e di suggestione con la quale i due ragazzi, giunti al traguardo del quinto anno, hanno salutato la scuola il 28 maggio 2011 nella Sala Espositiva del Liceo Artistico Statale "Sabatini" diretto dal Preside, prof. Michele Sabino, sostenitore dell'iniziativa. 

   Accompagnato da uno scelto corredo iconografico, lo scritto allegato evidenzia con quanta limpidezza la mostra riveli come l'estrinsecazione della creatività artistica manifesti e assegni un valore aggiunto a soggetti nei quali talvolta rischia di essere offuscata la dignitas della dimensione umana presente in ogni persona in quanto tale. 

 

 

Comunicare attraverso l’arte

 

di Adelaide Trabucco

 

  

 

 

 

 

 

 

 

 L’ostacolo iniziale che incontriamo nei nostri rapporti interpersonali si può riassumere nell’interrogazione: come è possibile comunicare? Arnaldo Prete e Francesco Zona hanno risolto la problematicità della comunicazione umana ponendo in essere una strategia che passa anche attraverso l’arte.

1.       FRANCESCO ZONA: Onde in fiore – 2011 – acrilici su tela

 

La loro esperienza creativa ha contribuito alla realizzazione di opere con una forte carica espressiva, significative di un’identità personale e di un lavoro svolto all’interno di un contesto familiare ricco non soltanto di estremo affetto e attenzione, ma anche di sollecitazioni culturali. Ha parimenti ricoperto un ruolo importante il contesto socio-educativo. Il percorso formativo scolastico di Arnaldo e Francesco si svolge nel contesto del Liceo Artistico Statale “Andrea Sabatini” di Salerno, dove sono stati seguiti dalla loro insegnante di sostegno, la prof.ssa Gisolfi, ispiratrice della mostra che presenta i loro quadri – iniziativa sostenuta dal Preside del Liceo, prof. Michele Sabino.

2. ARNALDO PRETE: Alla ricerca dell’azzurro – 2011 – acrilici su tela

  L’estrinsecazione della creatività rivela e assegna un valore aggiunto a soggetti nei quali talvolta rischia di essere offuscata la dignitas della dimensione umana presente in ogni persona in quanto tale.

   Ricca di fascino e di suggestione, l’esposizione testimonia come l’arte possa diventare il veicolo per la maturazione di attitudini e di competenze che si svolgono secondo percorsi misteriosi e imprevedibili non sempre codificati dalla scienza o semplicemente dall’esperienza, andando oltre le distinte peculiarità corporee o psichiche. 

 

                3. FRANCESCO ZONA: Albero in fiore – 2011 – acrilici su tela   

 

 

   I due allievi, che hanno raggiunto il traguardo della V classe liceale, hanno interagito per la realizzazione delle loro opere in particolare, oltre che con la loro insegnante, con gli insegnanti di Discipline Pittoriche che li hanno accompagnati nel corso degli anni:, senza tralasciare, anzi evidenziando il ruolo fortemente propositivo svolto dal gruppo classe, che li ha accolti, sostenuti e per certi versi coccolati, nonché dal Liceo in tutte le sue componenti.

 

   4. ARNALDO PRETE: L’oro e il bianco – 2011 – acrilici su tela


  
Non è azzardato ipotizzare che la presenza di Arnaldo e Francesco abbia portato negli interlocutori una trasformazione del proprio essere, affinandone la sensibilità e permettendo loro un rapporto il più possibile vicino alla situazione esistenziale dei due ragazzi.

   Sono opere di una grande vivacità e varietà espressive che attraverso un sicuro e innato senso estetico manifestano la gioia della vita e la bellezza e la problematicità dell’adolescenza. Lo riscontriamo nelle opere di Francesco Zona, il quale sembra predisposto verso una pittura puntiforme e grumosa, dove i pigmenti hanno una sorta di golosa corposità nella vivace e variegata formulazione cromatica che definisce con attenzione e forza gli aspetti della realtà che colpiscono l’autore. Francesco si rivela affascinato soprattutto dalla natura: i fiori, indagati non soltanto da lontano, ma anche a distanza ravvicinata, riprodotti con arditi e gioiosi accostamenti di colori freddi e caldi; gli alberi, sui quali risplendono i fiori come piccoli soli; le montagne, scure, ma illuminate dalla neve; e poi ancora il prato, il cielo, le onde, il sole. Degne di attenzione sono le interpretazioni di opere storiche come l’Urlo di Munch, o Notte stellata di van Gogh, o le Composizioni di Mondrian, o il dripping di Pollock, da lui realizzato in una raffinatissima creazione.

 

5. FRANCESCO ZONA: Le gocce – 2011 – acrilici su tela

 

   Parimenti ricca di incanto è la pittura di Arnaldo Prete il quale, nella scoperta e nell’indagine del colore, compie un percorso parallelo a quegli artisti che dal secolo XX indagano sulle componenti strutturali dell’opera, dal segno, alla linea, alla texture, al colore, al gesto. È proprio il metalinguaggio dell’arte che inconsapevolmente attira Arnaldo Prete e lo conduce a campiture monocromatiche dove le variazioni luministiche sono date dallo spessore delle brevi pennellate, accostate l’una accanto all’altra.

 

 

 6. ARNALDO PRETE: Il viola e l’oro – 2011 – acrilici su tela

   O, ancora, porta Arnaldo a scoprire la capacità significativa della larga pennellata che, densa di colore e vibrante, percorre lo spazio seguendo una gestualità espressionistica: nera, fino a coprire quasi il giallo del fondo; o viola, sull’oro che campisce la tela – un nero e un viola che invano tentano di sopraffare il giallo e l’oro della preziosità di vita che è in noi.

  

 

  

 

 

 

Salerno, 24 maggio 2011

 

 


Con preghiera di citare la fonte in caso di utilizzazione del testo per motivi di studio. 


 

 

L'icona della Madre di Dio della Tenerezza è stata scritta da Adelaide Trabucco nel 2005 per la ristrutturazione della Chiesa dedicata a Maria SS. del Carmine e San Giovanni Bosco in Salerno, ristrutturazione per la quale Adelaide Trabucco ha elaborato anche il progetto cromatico, e progettato e coordinato la realizzazione dei diversi interventi messi in opera.

   L'ubicazione dell'icona, a circa 17 metri di altezza, spiega le sue dimensioni: m. 2,40 (asse verticale) x m.2,10 (asse orizzontale). La sua forma ottagonale è pensata per essere collocata sull'arco trionfale che apre al presbiterio della Chiesa, relazionandosi nel contempo con la morfologia architettonica dell'edificio caratterizzato non da linee curve, bensì da linee rette e/o oblique.

   L'icona, seguendo una sensibilità ecumenica, si ispira al prototipo della Madre di Dio di Vladimir, sec. XII, appartenente all'iconografia della Madre di Dio detta Eleousa, la Misericordiosa, o della Tenerezza a motivo dell'affettuosità dei gesti tra la Madre ed il Bambino. Nell'immagine la purezza delle linee e la nitida essenzialità delle forme si uniscono ad una intensa comunicazione interpersonale tra la Madre di Dio e lo spettatore, il quale avverte fortemente su di sè lo sguardo materno, uno sguardo capace di ricondurlo nel mistero della Misericordia di Dio. La Madre, difatti, inclina lievemente il capo, a toccare la guancia del Figlio, il quale le corrisponde rivolgendole una carezza che la circonda amorosamente. E, in lei, abbraccia e consola ciascuno di noi, divenendo portatore ed operatore di misericordia e di amore.

Pubblicato in data: 15-01-2011

 

 

 

 

Con preghiera di citare la fonte in caso di utilizzazione del testo per motivi di studio. 

Lunedì, 09 Maggio 2011 14:15

La Madonna del giardino

All'Anno Mariano Diocesano celebrato nella Diocesi di Salerno-Campagna-Acerno nel 1996 risalgono una serie di ricerche svolte da Adelaide Trabucco sull'iconografia mariana. Qui viene presentato, arricchito da un selezionato corredo iconografico, un articolo pubblicato su "Agire" (6 luglio 1996) che illustra come dall'interpretazione in senso mariano del Cantico dei Cantici, precisamente dal passo in cui l'amata viene chiamata Hortus conclusus, "Giardino sigillato" (Ct 4,123), nasce nel Tardo Medio Evo il tipo iconografico della Madonna del Giardino, o Madonna del Roseto, o Madonna dell'Umiltà.

   Adelaide Trabucco rileva che nella poetica medievale il giardino è uno spazio chiuso nel quale la natura ritrova la purezza originaria della Creazione. La Vergine regale, ornata dalle gemme di tante virtù, siede umilmente sul prato erboso rilucente di fiori del simbolico Hortus conclusus. Ella che, cantava san Bernardo di Chiaravalle, se piacque a Dio per la sua verginità, ne divenne la madre per la sua umiltà...

 

 

 

LIPPO DI DALMASIO: Madonna in umiltà - 1390 ca. - National Gallery, Londra

 

 

Con preghiera di citare la fonte in caso di utilizzazione del testo per motivi di studio.