PAOLA PATRIARCA: Porta di S. Francesco - anno 2016 - bronzo - 

Basilica Papale di S. Maria Maggiore, Roma - courtesy Paola Patriarca

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Venerdì, 25 Marzo 2016 18:44

Icona di San Michele Arcangelo

 

<<Desideriamo proporre un'iconografia di san Michele Arcangelo poco conosciuta in Occidente, ma molto diffusa in area bizantina: san  Michele Arcangelo il Liturgo, rappresentato  nell'atto di  tributare il dovuto culto di adorazione all'Altissimo. L'intero suo essere indica  reverenza estrema, dall'espressione del viso, all'inclinazione della testa, alla delicata curva delle spalle,  alla discrezione con cui impugna la  sottile asta del comando, alla trepidazione e saldezza con cui circonda e regge nella mano il globo trasparente, simbolo dell'universo, con  impresso il monogramma di Cristo, alla leggerezza del suo incedere.

  

Dalla profondità del culto di adorazione da parte dell'Arcangelo scaturisce in lui la celeberrima espressione che lo distingue e lo sostanzia  fino a diventare il suo stesso nome: "Mi-ka-El", ovvero "Chi è come Dio?" >> Adelaide Trabucco

 

 

 

 

                                                                                                 

   <<Vedendo il tuo coraggio contro le schiere di satana, tutti i Cori Angelici con gioia si sono messi dietro a te nella battaglia per il nome e la gloria del Sovrano, cantando: "Chi è come Dio?". Noi vedendo satana calpestato sotto i tuoi piedi ti acclamiamo vincitore:  

 

Rallegrati, tu per cui nei cieli è stata ristabilita la pace e la tranquillità.  

 

Rallegrati, tu per mezzo del quale gli spiriti maligni sono precipitati nell'inferno.  

 

Rallegrati, tu che conduci le Schiere Angeliche e le forze del mondo invisibile per l'annientamento del male.  

 

Rallegrati tu che domini invisibilmente l'agitazione e l'impeto delle forze del mondo visibile.  

 

Rallegrati, tu che sei meraviglioso aiuto per quanti sono impegnati nella lotta contro gli spiriti maligni sulla terra.  

Rallegrati, tu che sei forte sostegno per tutti gli abbattuti nelle tentazioni e sciagure.  

 

 

Rallegrati, Michele, grande Archistratega, con tutte le Schiere Celesti!  

 

Alleluia!>>       

 

                                                                    

                                                                                Dall'Inno Akathistos a San Michele Arcangelo

 

 

                               

                                                                                             

 

                                                                                                                     

 

 

 Con preghiera di citare la fonte in caso di utilizzazione del testo per motivi di studio. 

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Giovanni Antonio da Pesaro, pittore per sensibilità e formazione vicino a Gentile da Fabriano, dipinge una rara effigie che coniuga l’iconografia della Madonna del Mantello o Madonna della Misericordia con l’iconografia bizantina della Madre di Dio del Segno, conosciuta in Italia nelle aree dov’erano maggiori i contatti con l’oriente, quale, nel nostro caso, la costa adriatica. La tavola, realizzata per il Santuario di S. Maria dell’Arzilla vicino Pesaro, di origine medievale, è firmata, datata, nonché ulteriormente storicizzata dall'indicazione dell’identità del Committente. Alla base del dipinto si trova una dettagliata iscrizione, in lettere gotiche di color rosso, che attesta: “Giovanni Antonio Pesarese ha dipinto. Ave Maria. Nell’anno del Signore 1462 il giorno 8 dicembre questa immagine di S. Maria della Misericordia commissionò la comunità di Saltara”. 

Compare in Occidente nel XIII secolo la rappresentazione della Vergine del Mantello la quale per la sua misericordia copre i fedeli con il suo manto in un gesto di protezione, di difesa, di amore.

SIMONE MARTINI: Madonna della Misericordia o del Mantello - 1305-1310 ca. - tempera e oro su tavola - Pinacoteca Nazionale di Siena

 

 

Proponiamo in questa sede anche la Madonna del Mantello dipinta da Domenico di Michelino nel 1446 circa e restaurata nella Bottega di Francesco Granacci agli inizi del secolo XVI. È precisamente appellata Madonna degli Innocenti o Madonna dei Gittarelli, dipinta sullo stendardo del brunelleschiano Spedale degli Innocenti. L’Istituzione volle scegliere per sé tale denominazione che richiamasse la erodiana Strage  degli Innocenti (Mt 2, 1-16) poiché sorse a Firenze nel 1448 per accogliere i neonati lasciati,  “gittati”, nella ruota a conca dalle madri che, per varie ragioni, non potevano allevarli – da qui l’appellativo di Madonna dei Gittarelli. Sono bambini e bambine di età differenti e dal conseguente diverso abbigliamento: alcuni in fasce, altre parzialmente fasciati e con le gambine libere, altri con bianchi vestiti a camicina, altri con il grembiulino nero recante lo stemma degli Innocenti, un bimbo avvolto nelle fasce. Nella loro diversità li accomuna l’espressione dolce, serena e mesta dei visi, la naturale vivacità dell’età che si manifesta, pur nella compostezza della messa in posa per il ritratto, nel repentino volgersi delle teste e nel vario incrociarsi degli sguardi, i sentimenti di affetto e protezione gli uni verso gli altri e la richiesta di amore e difesa nei riguardi della Vergine, esplicitamente manifestata dal bimbo che si appoggia con abbandono e confidenza al corpo della Madonna che, sotto il mantello, indossa la lunga veste rossa della Charitas divina.

 

 DOMENICO di MICHELINO: Madonna del Mantello o Madonna degli Innocenti - 1446 ca. - tempera su tela  - Galleria dello Spedale degli Innocenti, Firenze

 

 La Madre di Dio del Segno è un’immagine di derivazione bizantina di cui Andrè Grabar individua magistralmente le origini nell’iconografia  del tema dell’incarnazione e della concezione, nell’ambito della categoria dei dogmi raffigurati da immagini giustapposte. Nell’iconografia usuale dell’incarnazione un raggio di luce discende su Maria e la colomba dello Spirito Santo vola su di lei o discende verso il suo orecchio. A partire da questa iconografia consueta, verso il IX secolo  nell’Impero bizantino se ne sviluppa un’altra: Maria  in preghiera con le braccia alzate nel gesto dell’Orante e il Bambino racchiuso in un clipeo sul  petto di lei. Questo singolare motivo era una convenzione per mostrare, per così dire in trasparenza, il Bambino che doveva nascere[1]. L’effigie manifesta le parole del profeta Isaia: “Pertanto il Signore stesso vi darà un segno. Ecco: la vergine concepirà e partorirà un figlio, che chiamerà Emmanuele”[2]. L’evangelista san Matteo, il più attento alla continuità ed alle anticipazioni e corrispondenze fra Antico Testamento e Vangelo, legge nella profezia di Isaia l’annuncio della nascita di Gesù, l’Emmanuele ovvero il Dio-con-noi, il Segno dato da Dio – da cui il nome di Madre di Dio del Segno assegnato all'icona.

Madre di Dio del Segno o Platytera - XIII secolo - tempera e oro su tavola - Monastero di S. Caterina sul Sinai

 

La tavola di Giovanni Antonio da Pesaro raffigura la Madonna della Misericordia o del Mantello mentre copre con il suo manto i fedeli, recando sul petto non un clipeo,  ma una mandorla, simbolo dell’universo che custodisce al suo interno il Bambino di cui viene messa in risalto la divinità. Egli è raffigurato nudo con un lieve panno di rispetto sui fianchi, ben saldo in piedi, mentre con la mano destra benedice e con la mano sinistra regge una sottile croce astile che all’incrocio dei bracci presenta il globo, altro simbolo del  Creato, a sottolineare il concetto del governo misericordioso di Cristo sull’universo.

Se è vero che nel cuore della madre c'è il figlio,  in questo caso singolare nel cuore della creatura c'è il Creatore, colui che “i cieli e i cieli dei cieli non possono contenere, né tantomeno il Tempio"[3]. Egli in Maria “ha fatto grandi cose  guardando l’umiltà della sua serva"[4] la quale da san Basilio, Padre della Chiesa, è appellata Platytera, la più vasta dei cieli tanto da accogliere il Verbo fatto carne, colui che i cieli non possono contenere: “Tu, sede di Dio, l’Infinito”[5] canta l’inno liturgico Akathistos (V-VI secolo).  Ed è colui il quale nella Madonna della Misericordia e Madre di Dio del Segno fa vedere Gesù, segno e strumento della Misericordia del Padre, in lei “clemenza di Dio verso l’uomo / fiducia dell’uomo con Dio”[6].

 

 

 

 

 

 



   [1] Cfr.  Andrè grabar, Le vie della creazione nell’iconografia cristiana, Ed. Jaca Book, Milano 1988, p. 159.

   [2] Is 7,14

   [3] Cfr. 1 Re 8,27

   [4] Cfr. Lc 1, 46-55

   [5] Akathistos, stanza 15, v. 6.

   [6] Akathistos, stanza 5, vv. 16-17.

  

 

 Con preghiera di citare la fonte in caso di utilizzazione del testo per motivi di studio.

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Vincent van Gogh dipinge Campo di grano con volo di corvi nel 1890: è una delle sue ultime opere e preannuncia il suicidio dell’Artista, avvenuto il 29 luglio di quello stesso anno. Nello stesso mese di luglio aveva scritto al fratello Theo: “Ho ancora dipinto tre grandi tele. Sono immense distese di grano sotto cieli tormentati, e non ho avuto difficoltà per cercare di esprimere la mia tristezza, l'estrema solitudine”.

 

VINCENT VAN GOH: Campo di grano con corvi - 1890 - Museo Van Gogh, Amsterdam

 

   L’opera, ed in generale l’arte di van Gogh, manifesta come la pittura del Nostro sia alla radice dell’Espressionismo nella sua capacità di imprimere con forza il proprio segno nella realtà, un segno che in van Gogh è segno dell’anima, della mente e del cuore. Il dipinto costituisce un esempio estremo di uso violentemente psicologico del segno e del colore.

 

 VINCENT VAN GOGH: Notte stellata - 1889 - Museum of Modern Art, New York 

 

 

   Van Gogh ha appreso pienamente dagli Impressionisti le indicazioni riguardanti la reciproca influenza dei colori e la capacità che posseggono segnatamente i colori complementari di esaltarsi reciprocamente accentuando al massimo la loro specifica luminosità. Questi rapporti, però, non lo interessano come riscontri visivi, bensì come rapporti di forze all’interno del quadro: sono forze di attrazione, ma anche di repulsione, e comunque sempre manifestano tensione. A motivo di tali rapporti e contrasti di forze l’immagine tende a distorcersi, a deformarsi, a lacerarsi: per l’accostamento stridente dei colori, per l’andamento spezzato dei contorni, per il ritmo serrato delle pennellate, che fanno del quadro un contesto serrato di segni animati  da una vitalità febbrile. La materia pittorica acquista un’esistenza autonoma, esasperata, quasi insopportabile: il quadro non rappresenta, è. Così in Campo di grano la scena, realizzata con autentico furore creativo, è composta da pennellate che seguono la direzione dei piani prospettici o si accavallano. Il campo di grano, tagliato da tre viottoli, appare scosso dal vento; uno stormo di corvi neri, resi con semplici linee zigzaganti, si leva in un basso volo scomposto. Una tempesta, quasi presaga di lutto, incombe su questo paesaggio, anticipata da nubi nere e minacciose. L’azzurro luminoso del cielo, l’oro lucente del grano, vinti dal colore scuro che li copre, stanno per soccombere, come l’artista che li dipinge, in un  ultimo, disperato appello di vita. 

 

VINCENT VAN GOGH: Iris blu -  1889 - J. Paul Getty Museum, Los Angeles

 

   Eppure non molto anni prima aveva scritto al fratello: “Per quanto vuota, vana e morta possa sembrare la vita però, chi ha fede, energia e calore umano, colui che sa qualcosa, non si lascia portare su una strada sbagliata per questo. Egli ci si butta e costruisce, in breve rompe, rovina” (Nuenen, ottobre 1884).188

 

 VINCENT VAN GOGH: Veduta di Arles in fiore - 1889 - Neue Pinakothek, Monaco

 

   I paesaggi di van Gogh, i fiori di van Gogh  sono la trasposizione simbolica di uno stato d’animo e di una situazione esistenziale, testimoniata, fra i tanti passi delle sue lettere, dalle parole scritte da Cuesmes al fratello Theo dieci anni prima: “Il mio tormento si riassume in questo interrogativo: a che potrei servire, come potrei essere utile in qualche modo, come potrei saperne di più e approfondire questa o quella cosa? Vedi, tutto questo mi tormenta continuamente e mi sento prigioniero, impotente a partecipare a tale o tal’altra opera. A causa di questo si diviene malinconici”.

 

 

 VINCENT VAN GOGH: Pietà  - 1890 -  Musei Vaticani

 

 

 

 

 

 Il 27 luglio 1890 van Gogh si sparò un colpo di pistola al petto. Visse ancora due giorni, durante i quali conversava con il fratello Theo accorso da lui. Ci piace pensare che in quelle ore, che possono essere state un tempo di grazia, sia continuata in lui quella dialettica che aveva attraversato tutta la sua vita e che lo aveva condotto a dire: “Se si continua ad amare sinceramente ciò che è veramente degno di essere amato, e non si spreca il proprio amore per delle cose insignificanti, vuote e sciocche, si riceverà poco a poco sempre maggior luce e si diventerà più forti” (Amsterdam, 3 aprile 1878). E qualche anno più tardi, non dimentico di quella scelta della sua gioventù che lo aveva condotto a condividere la vita durissima e misera dei minatori del Borinage, aveva messo a fuoco e puntualizzato: “il miglior modo per conoscere Dio è quello di amare molto. Ama il tale amico, la tale persona, la tale cosa, quel che vuoi e sarai sulla via del sapere, ecco ciò che mi ripeto. Ma occorre amare con simpatia seria e intima, con volontà, con intelligenza e bisogna sempre cercare di saperne di più o meglio – questo conduce a Dio, alla fede incrollabile” (Cuesmes, luglio 1880). Aveva così magistralmente interpretato il  "Dilige et  quod vis fac(In Io. Ep. tr. 7, 8) di sant'Agostino: "Ama e fa' ciò che vuoi, sia che tu taccia, taci per amore, sia che tu parli, parla per amore, sia che tu corregga, correggi per amore, sia che perdoni, perdona per amore; sia in te la radice dell'amore, poiché da questa radice non può procedere se non il bene". 

 

 

 

 

  VINCENT VAN GOGH: Mandorlo in fiore - 1890 -  Museo Van Gogh, Amsterdam

  

 

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Mercoledì, 19 Giugno 2013 18:06

Maria nella Pentecoste

La discesa dello Spirito Santo è il fine ultimo dell'attività soterica trinitaria, come affermavano già i Padri della Chiesa. Nel De Incarnatione Verbi scrive sant’Atanasio di Alessandria, formidabile difensore della consustanzialità del Figlio rispetto al Padre, negata dall'eresia ariana: "Il Verbo ha assunto la carne affinchè noi potessimo ricevere lo Spirito Santo". Qual'è il ruolo della Beata Vergine Maria nella discesa dello Spirito sugli uomini, sia ora sia nell'evento storico della Pentecoste? Seguendo per la ricerca un'impostazione ecumenica, l'articolo rileva come le invenzioni iconografiche siano numerose e diversificate sia nell'Oriente sia nell'Occidente; presentato su “Agire” (sabato, 1° giugno 1996)  è da collocarsi nell'ambito delle ricerche che ho svolto in merito alle immagini dedicate alla Madre di Do nella Pentecoste, effettuate in occasione dell'Anno Mariano Diocesano tenutosi nella Diocesi di Salerno-Campagna-Acerno nel 1996. Il presente elaborato è corredato da una ricerca iconografica che spazia dal dipinto di El Greco al Prado, al mosaico della Cupola di S. Marco a Venezia, alla miniatura del Codice de' Predis che vede ciascun Apostolo reggere tra le mani un cartiglio con un articolo del Credo, sottolineando così il legame diretto tra l'effusione dello Spirito Santo e la Fede. La presenza di Maria nelle raffigurazioni della Pentecoste è attestata  fin dalla prime testimonianze figurative...

 

 

 

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Il giormo 11 aprile 2013 , promosso da Adelaide Trabucco, è stato presentato al Circolo Canottieri Irno di Salerno il libro di Gioconda Marinelli L'uomo che fondeva le campane, accompagnato da letture di brani scelti, a loro volta commentati da brani musicali. Il testo è stato illustrato criticamente dal professor Francesco D'Episcopo, docente di Letteratura italiana e Critica letteraria presso l'Univesità degli Studi "Federico II" di Napoli, e da Ester Basile, docente all'Istituto Italiano di Studi Filosofici di Napoli.

 

Riportiamo di seguito la relazione di Adelaide Trabucco.

L’uomo che fondeva le campane della scrittrice Gioconda Marinelli è un testo, già presentato a Roma, a Napoli ed in altri contesti culturali, che. ci dona la vicenda di Pasquale Marinelli, dinamico promotore nella molisana Agnone, insieme con il fratello Ettore, della Pontificia Fonderia Marinelli, di millenaria tradizione.

   Agnone, ricorda Gioconda Marinelli, è “città d’arte e di storia”, tratteggiata in modo impareggiabile dalla scrittore Francesco Jovine, la stessa città che viene definita dallo storico napoletano Antonio Spinosa “una capitale”: “È la più sonora capitale del mondo, la capitale delle campane. Qui da molti secoli risuonano le campane, e le sue campane risuonano in tutto il mondo. La tradizione dei fonditori di campane ha il nome di Fonderia Marinelli”, la seconda fabbrica più antica del mondo. Le ‘voci degli angeli’ echeggiano da Pechino, a Cracovia, a Seul, alle Antille, a Hiroshima, ad Addis Abeba.

   La vita di Pasquale Marinelli, per molti versi un tutt’uno con la vita della Pontificia Fonderia, è filtrata dagli occhi amorosi e attenti della figlia Gioconda la quale con struggente nostalgia e orgoglio ricostruisce la storia di suo padre, narrando di lui ma raccontando anche di se stessa, in un personale e confidenziale intreccio di biografia ed autobiografia.

   Il legame profondo, viscerale che univa - e, possiamo affermare, unisce – l’Autrice con suo padre è manifestato in una prosa sobria e piana nella quale, proprio per questo, incidono con potenza traslati, figure di pensiero, figure di sentimento che come un lampo illuminano e mettono a nudo un’emozione, una sensazione, un’immagine, una descrizione. Penso, per esempio, alla ύποτύπωσις, l’ipotiposi mediante la quale con vivezza rappresenta l’intuizione della morte del padre: “Tutto quello che era accaduto e intimamente temevo, mi batté contro l’anima e me la tranciò”. Oppure alla personificazione con cui riveste le “tradizioni profumate di affetti familiari, di dolci preparati con cura”, ed i “negozi imbellettati, truccati con colori natalizi”. O all’ossimoro nei termini della “mia sofferenza amata” ed all’antitesi nei concetti de “La vita convive con la morte”. Ancora, mi sovviene la metafora delle “presenze che guidano i miei passi, lanterne che difendono dal buio”. O l’epifonema “Non si è mai pronti”, con cui conclude il pensiero.

   Legami viscerali uniscono l’Autrice non soltanto con il padre, ma con tutti i familiari ai quali dedica personali ritratti individuando i soggetti con acutezza e affetto.

   In Gioconda Marinelli è così intenso il sentimento della famiglia, delle proprie radici da farle asserire: “Noi siamo il nostro passato”.

   A volte, rare volte, affiora una certa amarezza per la consapevolezza di un solitario sentire la vita ognora presente nel passato: “In un niente, quando moriamo, si liberano le stanze, gli armadi, si dissolvono le nostre esistenze, si smembra tutto ciò in cui abbiamo creduto, almeno per la maggior parte di noi, così è la prassi e la memoria cade a pezzi”.

   Nel testo, momenti ed eventi familiari e privati si intrecciano con quelli pubblici e di importanza storica derivanti dalla scelta del padre dell’Autrice di continuare un percorso millenario, ricostruendo ex nihilo dopo le rovine della seconda guerra mondiale un patrimonio in cui alla sapienza artigiana di inestimabile valore si legano cultura, arte, tradizione.

   Compaiono così con naturalezza persone e luoghi di grande rilevanza che la Famiglia Marinelli ha conosciuto - e amato. Ricordiamo, tra gli altri, il Beato Giovanni Paolo II che nel 1995 benedisse all’interno della Fonderia Marinelli la campana della Pace destinata all’ONU. Oppure il Beato Bartolo Longo il quale insieme con la moglie, la contessa Marianna de Fusco, ospitò nella sua dimora i Marinelli recatisi a Pompei con le maestranze per fondere in loco gli otto grandi bronzi presenti nel Campanile del Santuario della Beata Vergine del Santo Rosario. Ancora, san Pio da Pietrelcina che auspicò il grande concerto di quindici campane per il Santuario di San Giovanni Rotondo.

   Dalle mie personali ricerche storiche ho appurato che il concerto ad otto voci presente nel Campanile della Cattedrale di S. Matteo in Salerno annovera tre antiche campane della Fonderia Marinelli: una datata 1475 e due risalenti al secolo XVIII – queste ultime due collegate evidentemente all’imponente ricostruzione settecentesca seguita al rovinoso terremoto del 1688.

   Una storia importante quella della Pontificia Fonderia Marinelli, che oggi sta brillantemente continuando affidata non soltanto alla mente e al sentimento di Gioconda, ma anche operativamente alle mani e all’intelletto di Armando e Pasquale, figli di Ettore, l’artista e lo scultore dell’Impresa.

   Antonio Delli Quadri, Maestro d’arte, che fin da giovanissimo ha operato nella Fonderia Marinelli, nel suo libro L’Arte Campanaria così ricorda Ettore Marinelli: “Con ritmi impressionanti, Ettore Marinelli trasformava pani d’argilla in figure, immagini, ornamenti e scene.  Nel suo talento traspariva uno squisito senso del bello e della grazia, della fantasia e della passione, tutte qualità che gli hanno consentito di realizzare le sue opere con una tecnica raffinata e nella cura dei dettagli e dei particolari. Pochissimi scultori hanno avuto la possibilità di essere artisti e, nello stesso tempo, fonditori e tale completezza gli ha consentito di curare ogni sua opera dalla forma in argilla alla fusione; un percorso lunghissimo, fatto di interminabili passaggi che si concludevano con operazioni di rifinitura e di patina, eseguite con perizia di vero maestro di bulino e di cesello, doti difficilmente riscontrabili nella quasi totalità degli artisti, che si limitano alla manipolazione delle argille”.

   Oggi la famiglia Marinelli prosegue nel tempo quell’impareggiabile incanto del lavoro artigianale che è esclusivo e senza eguali, consapevole che, come soleva dire Pasquale Marinelli, “è necessario vivere più di progetti che di ricordi”. Un lavoro artigianale che attinge alla fusione del bronzo e di altri metalli per la realizzazione delle campane e per questo, come disse l’indimenticato Giovanni Paolo II nella sua visita ad Agnone nel 1995, è una “metafora augurale per un mondo che ha più che mai bisogno di armonizzare, e quasi di ‘fondere’ le sue diversità in un solido progetto di pace”. 

   Una delle ultime opere dei Fratelli Marinelli è la Vox Fidei, la Campana per l'Anno della fede donata a papa Francesco il 24 aprile 2012, in occasione della visita a Roma della diocesi di Trivento guidata da Sua Eccellenza il Vescovo Domenico Angelo Scotti. L'opera in bronzo reca incisa su un lato la rappresentazione dell'Anno della fede mentre sull'altro lato presenta lo stemma di papa Francesco.

 

 

 

Con preghiera di citare la fonte in caso di utilizzazione del testo per motivi di studio.

 

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Codice Vaticano Latino 5729. Risonanze teologiche di una proposta didattica

 

di Adelaide Trabucco

 

 

 

 

 

Il professor Vincenzo Avagliano, docente di scultura presso il Liceo Artistico “Andrea Sabatini” di Salerno diretto dal Preside Michele Sabino, si è fatto promotore di un originale progetto artistico finalizzato a ricercare il dialogo non soltanto con l’oggetto-opera ma anche con altri soggetti-persona - colleghi e alunni - attraverso differenti livelli di coinvolgimento esperienziale e creativo. 

 

   Il Laboratorio di scultura del maestro Avagliano si è attivato nella persona dello stesso docente, nonché attraverso la partecipazione della sua Classe. Anna Sessa, insegnatedi discipline plastiche, ha guidato gli allievi del Corso Serale, mentre il prof. Umberto Aliberti ha messo a disposizione la sua esperienza e preparazione quale aiutante tecnico per la realizzazione delle opere in ceramica. Significativa per il taglio multidisciplinare dell’iniziativa culturale, l’adesione della professoressa Francesca Poto che ha creato esclusivamente per il progetto due incisioni segnate da una straordinaria tensione vitale, nel segno e nella policromia.

   L’esperienza di collaborazione fra docenti di diverse discipline ha avuto una funzione maieutica nei riguardi degli alunni ai quali è stata fornita l’occasione di riflettere creativamente su un tema attualmente poco comune e ricorrente, ma destinato ad essere incontrato, seppure in termini diversamente incisivi, da ogni nato di donna.

   Fonte di ispirazione è stata una miniatura raffigurante la Crocifissione di Cristo, tratta da uno dei più importanti Codici illustrati del sec. XI giunti sino a noi. Si tratta del Codice Vaticano Latino 5729 che fu miniato tra gli anni 1015 e 1020 nello scriptorium interno al monastero di Santa Maria di Ripoll (Rivipollens), fondato da Vilfredo conte di Barcellona nell'880 ca. in Catalogna.

 

1. Monastero di S. Maria di Ripoll - 880 ca. - Spagna, Catalogna 

  

 

  All’epoca dell’abate Oliba (1008-1046), un tempo di grande rinascita spirituale e culturale, venne redatta una recensione della Bibbia destinata allo studio più che alla liturgia, accompagnata da un ricchissimo apparato di testi esegetici e da un ampio repertorio di illustrazioni bibliche tra i più vasti ed interessanti del tempo, con scene e motivi  per i quali non esistono paralleli iconografici. Tra i manoscritti della ricca Biblioteca – ne conteneva nel 1046 ben 246 - quello di maggior valore è  la Bibbia di Ripoll. Ancora non sono del tutto scientificamente accertati i tempi ed i percorsi in seguito ai quali la Bibbia di Ripoll pervenne alla Biblioteca Apostolica  Vaticana. Il Codice apparteneva senza dubbio alla Biblioteca Vaticana all’inizio del XVII secolo, come prova la rilegatura recante lo stemma papale di Urbano VIII Barberini (1623-1644) insieme con l’insegna cardinalizia di Scipio Cobelluzzi, Prefetto della Biblioteca negli anni 1618-1626 [1].

   La Bibbia di Ripoll è conosciuta erroneamente dal sec. XVII come Bibbia di Farfa: agli inizi dell’attuale secolo l’insigne esegeta benedettino dom Anscario Manuel Mundò ha dimostrato in un articolato saggio l’errata attribuzione dell’illustrazione del Codice Vaticano Latino 5729 all’Abbazia di Farfa[2].

   Attualmente le illustrazioni del Missale Romanum (1970), riformato a norma dei decreti del Concilio Ecumenico Vaticano II e promulgato da Papa Paolo VI, sono le miniature del Codice Vaticano Latino 5729, conservato nella Biblioteca Apostolica Vaticana.

   È pertanto prestigioso il modello con il quale l’iniziativa artistico-didattica si è misurata. Le creazioni artistiche proposte nella mostra si ispirano alla Crocifissione, realizzata nella Bibbia di Ripoll come scena storica.

    Nell’antica iconografia cristiana non sono frequenti le scene storiche della Crocifissione. Vengono creati invece svariati tipi iconografici come la Crux florida o  Croce trilobata, o il Nikētếrion, finalizzati a significare in modo tendenzialmente astratto il trionfo di Gesù Cristo sulla morte [3]. Le composizioni astratte simboleggiavano senza ombra di dubbio la vittoria sulla morte, allontanando ogni equivoco riguardo il reale significato soterico della crocifissione del Verbo Incarnato.

   Nelle Ampolle dei pellegrini provenienti dalla terra Santa (sec. VI), oggi custodite nel Tesoro del Duomo di Monza, il tema della Croce è interpretato in chiave simbolica, eludendo l'ostensione del corpo di Cristo in ben dodici delle sedici ampolle. Si nega l'immagine del Cristo Crocifisso, ma non il mistero della Croce. Essa è su ogni ampolla che vede il volto di Cristo, circondato del nimbo crucigero, comparire al di sopra della croce. Il rilievo di un’ampolla presenta il Cristo coperto di una lunga veste ed a braccia aperte, come se fosse in croce, ma è assente la croce.

   Le crocifissioni arcaiche pongono la croce in secondo piano e presentano il Cristo davanti alla croce, non sulla croce, come nel pannello ligneo della porte della basilica di S. Sabina, a Roma (V sec.).  

 

                                                                                

       2. Crocifissione – V sec. (II metà) – legno scolpito – Roma, Basilica di S. Sabina 

 L’artista mostra il Cristo vivente sulla croce soltanto nelle immagini dove, eccezionalmente, tratta la scena storica del martirio[4] - nelle quali comunque il primato teofanico faceva ridurre anche il lato aneddotico allo stretto necessario di un richiamo[5].

   Nell’antica iconografia cristiana le scene storiche presentano il Cristo correlato alla croce come il divino trionfatore sulla morte: è l’iconografia del Christus Triumphans, che rappresenta in una sola immagine il mistero della morte e della risurrezione del Cristo. Trascende il piano emotivo e non suscita l’emozione ma evoca il mysterium tremendum dinanzi alla parusia del trascendente[6].   

 

 

 3. ALBERTO SOTIO: Crocifisso  - 1187 – tempera su pergamena e su tavola - Spoleto, Duomo

 

 La volontà di esprimere il significato salvifico della Croce spinge l’artista a rappresentare non la sofferenza del Figlio dell’Uomo, il suo trapasso corporale, bensì la sua affermazione sulla morte. L’artista nel Christus Triumphans presenta alle antiche comunità cristiane, ed a noi, il paradosso per la ragione  costituito dalle conclusioni del Concilio di Calcedonia (anno 451) che affermava l’unione ipostatica della natura divina e della natura umana nella Persona del Verbo Incarnato, quale mistero per la ragione umana ma non contraria ad essa: Cristo è una sola Persona in due nature, divina ed umana. Dal momento che è vero uomo, viene crocifisso e muore; considerato che è vero Dio, risorge dai morti – “morendo distrusse la morte e proclamò la risurrezione”[7]. L’artista unisce i concetti di morte e resurrezione in accordo al kerygma apostolico che lega inscindibilmente gli eventi dell’annuncio evangelico della Passione-Morte-Risurrezione di Gesù, il Signore. 

L'iconografia del Christus Triumphans, così diversa dall’immagine del Crocifisso alla quale da secoli siamo abituati, è da apprezzare nel contesto storico e spirituale nel quale ha avuto origine. Per la comunità cristiana dei primi secoli è impensabile rappresentare Cristo come un cadavere, occhi chiusi, capo abbandonato sul petto, corpo del colore della morte: la morte non ha prevalso su di Lui. Cristo invece è il re dell’universo, il Pantocrator. Presenta il capo eretto e frontale, il viso sereno e luminoso, gli occhi vivi e aperti, i capelli ordinatamente pettinati, le braccia distese e soltanto leggermente flesse ai gomiti, il busto diritto al pari delle gambe unite e parallele. I piedi sono trafitti ciascuno da un chiodo - non c’è l’invenzione medievale del particolare straziante che vede i piedi trafitti da un unico chiodo. Parimenti non c’è ancora la corona di spine, ma l’aureola crociata o gloria cruciforme. Un’iconografia che permarrà fino al Medio Evo centrale quando avrà un altissimo esemplare nel Cristo di Alberto Sotio a Spoleto. 

   Il Cristo può essere raffigurato con il corpo nudo e apollineo, alla maniera della suddetta opera di Alberto Sotio; oppure rivestito con la tunica sacerdotale, che può essere la veste dei monaci siriaci, il colobium, la tunica senza maniche, come nell’esempio famoso di Crocifissione di aria ‘storica’ affrescata in S. Maria Antiqua (sec. VIII) in Roma che sviluppa un tema soltanto abbozzato nelle ampolle dei pellegrini forgiate in Palestina e conservate a Monza e a Bobbio[8.

   La datazione delle ampolle del gruppo “Monza-Bobbio” è comunemente fissata alla fine del VI secolo, poco prima che il papa Gregorio Magno, secondo una tradizione in questo caso non testimoniata dalle fonti ma ritenuta fededegna, ne facesse dono a Teodolinda. Ella, a sua volta, avrebbe compreso un gruppo di ampolle nei donativi per la fondazione dell'abbazia di Bobbio.

   Le ampolle della Palestina sono in metallo - una lega di stagno e piombo secondo la maggioranza degli studiosi, argento secondo Grabar (1958) - e contengono campioni degli olii delle lampade accese nei santuari della Terrasanta. Sulle loro facce sono impresse le raffigurazioni dei principali episodi neotestamentari, tra cui ricorrono particolarmente Crocifissione e Ascensione[9].

 

4. Ampolla reliquiario – VI sec. – lega di piombo e stagno, argento – Monza, Museo e Tesoro del Duomo

 

   In alcune di queste ampolle viene rappresentata la crocifissione, con la croce a tronco di palma, sul monte da cui sgorgano i quattro fiumi del Paradiso. Al vertice della croce si trova il capo del Cristo dai lunghi capelli, la barba e il nimbo crucigero, mentre a destra e a sinistra si trovano i due ladroni appesi al loro patibolo[10].

 

 5. Cappella dei Santi Quirico e Giulitta o Cappella di Teodoto - 741-752 – affresco - Roma, S. Maria Antiqua

 

 


  6. Crocifissione – 741-752 – affresco – Roma, S. Maria Antiqua, Cappella dei Santi Quirico e Giulitta o Cappella di Teodoto

 

 Nella chiesa di S. Maria Antiqua, il più antico e il più importante monumento cristiano del Foro Romano, che conserva sulle sue pareti un'eccezionale raccolta di dipinti murali (circa 250 metri quadri), nella Cappella dei Santi Quirico e Giulitta – al martirio dei quali è dedicato il ciclo pittorico della cappella - o Cappella di Teodoto (dal nome committente, alto funzionario della chiesa di Roma) è raffigurata la Crocifissione. Il Cristo indossa il colobium, ovvero l’abito sacerdotale: è una veste particolarmente significativa perché  la Crocifissione è dipinta nella nicchia posta sopra l’altare della parete meridionale. 

 La resa tiene conto tanto della tradizione bizantina  quanto - e soprattutto - di un nuovo linguaggio più accessibile al popolo, evidente in certi dettagli realistici: i paletti conficcati alla base della croce per puntellarla, il dinamismo dei due soldati romani (Longino con la lancia del Destino e l'altro, con la spugna bagnata d'aceto). In S. Maria Antiqua, scrive Grabar, il Crocifisso è il centro di una grande composizione che annuncia il dinamismo delle grandi creazioni carolingie, con serafini, angeli, uomini d’ogni rango che si avvicinano alla Croce per adorarla[11].

   Parimenti significativa è la Crocifissione di aria ‘storica’  di Rabbula. Vescovo di Edessa e rinomato scrittore, Rabbula prima di convertirsi al cristianesimo era prefetto. Quando si ritirò in monastero, donò tutti i suoi beni ai poveri.

   La miniatura raffigurante la Crocifissione adorna l’Evangeliario scritto nel 586 da Rabbula in estrànghelo - il tipo più antico di scrittura siriaca - su due colonne. Il Codice fu certamente eseguito, come attesta il colofone (c. 292r), nel convento di S. Giovanni di Beth Zagba. L'esatta ubicazione di questo monastero, solo raramente menzionato nelle fonti scritte del sec. VI, non è nota, ma si ritiene che si dovesse trovare nella Siria settentrionale12].

 

7.Tetravangelo di Rabbula. Crocifissione – 586 – miniatura - Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana


 Nell’iconografia del Triumphans il Cristo può indossare anche la tunica manicata, come nel Volto Santo di Lucca. Esprime il sacerdozio di Cristo che, morendo in croce, è divenuto altare, vittima e sacerdote: è il “grande sommo sacerdote”,  il Megas Archiereus paolino[13].

 

   8. Cristo in croce, detto della Santa Croce di Lucca – (part.) - sec. XVI (I metà) – legno scolpito e dipinto – nunc Roccagloriosa, Chiesa di S. Mercurio, olim Napoli, Chiesa della Croce di Lucca

 

   Nel sec. XI gradualmente si sostituisce all’iconografia del Cristo Triumphans, proveniente dalla Palestina, dalla Siria e dalla Cappadocia, l’iconografia del Cristo Patiens, ovvero sofferente e morto sulla croce, proveniente sotto il profilo iconografico da Bisanzio.

  L’iconografia del Patiens, dalla tipologia più umana e realisticamente descrittiva, si rinviene precisamente intorno al 1000 in miniature orientali prodotte nel monastero di Stoudios, che deve il suo nome a san Teodoro Studita, L’abate san Teodoro Studita fece del suo monastero una scuola di sapienti, di santi e di martiri vittime delle persecuzioni degli iconoclasti dai quali egli stesso fu ferocemente perseguitato per la sua appassionata difesa delle icone.

  Nelle suddette miniature ci troviamo di fronte a immagini ‘di transizione’.  Qui la morte di Gesù non ha certo i connotati realistici che caratterizzeranno le Crocifissioni occidentali, assomigliando piuttosto a una sorta di assopimento divino. I manufatti di Stoudios sono influenzati dalla teologia del monaco Niketas Stethatos il quale nel X secolo divulgò una concezione mistica della morte di Cristo. Nel Christus Patiens il viso e l’insieme sono sofferenti, ma non drammatici, come a manifestare un sonno divino: esprimono i patimenti e la morte, ma dichiarano nel contempo l'attesa della risurrezione.

 


 

   9. Croce – metà del XIII sec. - smalto su rame - Napoli, Galleria Nazionale di Capodimonte

 

Come nel Cristo Triumphans, non c’è ancora la corona di spine, ma l’aureola crociata. Il corpo è quasi nudo per mostrare i segni della flagellazione e dei patimenti, resi con una certa evidenza: Nella precedente iconografia del Triumphans invece il sangue possedeva soltanto il valore di segno, precisamente di tipo apologetico teso a manifestare la realtà dell’incarnazione – la presenza del sangue e dei segni dei patimenti diverrà sempre più evidente nella successiva iconografia del Christus Dolorosus.

10. MAESTRO DEI CROCIFISSI BLU: Croce dipinta – XIII sec. (seconda metà) – tempera su tavola – Assisi, Museo del Tesoro della Basilica di S. Francesco

 

Il Christus Patiens tende a evidenziare la sofferenza del martirio salvifico nell’intera figura del Messia: nella testa reclinata sulla spalla destra, nella torsione del corpo inarcato e flesso come un arco nella sofferenza. In quanto partecipazione al dolore mano, la figura del Patiens viene offerta alla meditazione emotiva e partecipata del fedele sui dolori del Golgota.

   La diffusione del Christus Patiens è favorita in Occidente dai Francescani poiché ben concorda con la religiosità emotiva ed umanizzata da essi sostenuta.

 

  11. Crocifissione - XIII secolo – affresco – Salerno, Cripta della Chiesa del Santissimo Crocifisso

 Nel Crocifisso del  Codice Vaticano Latino 5729  si legge il passaggio in atto dall’iconografia  del Triumphans  all’iconografia del Patiens e vi si afferma sia la divinità del Cristo – corpo apollineo ed eretto, occhi aperti e vivi che guardano intensamente - in funzione antiariana, perché la sofferenza avrebbe velato la sua divinità, negata da Ario; sia la sua natura umana – accentuazione patetica del sangue e della drammaticità, mestizia del viso, in particolare dello sguardo e dei gesti, anche degli astanti, come la Madre, san Giovanni Evangelista, Longino – contro l’eresia  monofisita che assegnava al Cristo la sola natura divina, di per sé impassibile. Il Concilio di Costantinopoli del 692 nell’XI canone dichiarava: “Bisognerà rappresentare nostro Signore sotto forma umana, bisogna che il pittore conduca a ricordare Gesù vivente in carne e ossa”.

 

 

  12. Crocifissione. Illustrazione dalle Miniature del Codice Vaticano Latino 5729 - Biblioteca Apostolica Vaticana, Messale Romano (1983)

 

   Il Cristo è su una grande semplice croce lignea il cui colore verde vuole alludere all’origine del legno sul quale venne crocifisso Gesù, secondo la Legenda Aurea di Jacopo da Varagine proveniente dall’albero nato sulla tomba di Adamo. La croce è profilata di rosso, segno del sangue versato da Cristo. Il Messia presenta il capo aureolato dal nimbo crociato, i capelli spartiti al centro, indossa un panno di rispetto dal colore azzurro. I piedi dai talloni accostati e dalle punte divergenti sono trafitti ciascuno da un chiodo, in accordo con l’originaria iconografia della crocifissione che seguiva le modalità secondo le quali si svolgeva storicamente il supplizio.

   Ai piedi della croce, nel ‘calvario’: la testa di Adamo, simbolo dell’intera umanità sulla quale discende il Sangue liberatore del Signore Gesù crocifisso.

   Alla destra del Cristo, la Madre, la quale sebbene abbia impresso sul volto i segni di un’accorata mestizia, ‘sta’   però eretta e composta: è la “Stabat Mater Dolorosa” la quale, sostenuta dalla fede nella parola del Figlio, stava dritta in piedi ai piedi della Croce. L’Artista mostra Maria quale cooperatrice alla Redenzione o, come sarà appellata dalla moderna teologia, Corredentrice, poiché la raffigura mentre protende entrambe le braccia verso il Cristo crocifisso, con le mani aperte verso l’alto nell’atto di offrire al Padre il Figlio a favore dell’umanità. La Vergine indossa una lunga veste rossa completa di velo che le avvolge il capo e, al di sopra, un mantello blu, secondo i colori che saranno suoi nella tradizione iconografica: il blu, segno dell’umanità ed il rosso, segno della divinità, colori simbolici della duplice natura divina ed umana del Figlio alla quale lei accede non per origine bensì per partecipazione. La Vergine Maria è vestita da vedova altolocata, ad indicare come, benché madre, non fosse mai stata moglie di nessuno. Il suo velo copre gran parte della fronte, segno in quel tempo di nobiltà [14].

   San Giovanni indossa una lunga tunica azzurra ricoperta da un mantello verde chiaro indossato a guisa di toga. Leva il braccio destro nell’atto di portare la mano al viso, nel segno canonico del dolore [15], mentre il braccio sinistro, ripiegato alla vita a sostenere la toga, regge il Vangelo.

  Tra il Figlio e la Madre, Longino trafigge il costato di Cristo, mentre tra il Maestro e il Discepolo un altro inquietante personaggio innalza verso il Redentore la spugna imbevuta di aceto. Rileva André Grabar che il successo di cui hanno goduto presso gli iconografi i personaggi del portatore di lancia e del portatore di spugna, è dovuto alla loro qualità di testimoni oculari della Crocifissione[16]. Al colpo di lancia inferto al fianco del Redentore è collegato il simbolismo del sangue e dell’acqua sgorgati dal costato di Cristo e interpretati quale figura della nascita della Chiesa. Molti Padri della Chiesa hanno visto nell’acqua il simbolo del battesimo, nel sangue quello dell’Eucarestia e in entrambi questi due sacramenti, il segno della Chiesa, nuova Eva che nasce dal costato di Cristo, nuovo Adamo.

   La scelta operata dal miniaturista di realizzare una Crocifissione di aria ‘storica’ va necessariamente in direzione del distacco dall’arte bizantina non più rispondente alla crescente esigenza narrativa condotta con accenti di vivace, immediata comunicazione e note talvolta crude e drammatiche. 

   Il prof. Avagliano ha realizzato per la mostra una prima croce in ferro, nella quale le lamiere sagomate sono sovrapposte e incurvate a restituire una cifra  tridimensionale. L’argenteo freddo del fondo è vitalmente tormentato dalle marezzature naturali provocate dagli ossidi di ferro gialli e rossi della ruggine. Sul corpo martoriato del Cristo, i selezionati interventi con gli acidi dicono drammaticamente la Passione, trascorsa ed ancora in atto. È un’opera che ha il sapore dell’iconografia del Christus Dolorosus dove l’accentuazione della drammaticità porterà alla creazione di immagini strazianti, dinanzi alle quali solo l’abitudine e la ripetizione delle forme espressive possono far dimenticare l’orrore e la pietà per la Persona ivi raffigurata. L’Artista vuole parlare al cuore indurito dall’allontanamento da Dio e inaridito da un’adesione a Cristo soltanto apparente: motivata dall’abitudine o dalla convenzione sociale, ma priva dell’incontro reale con la Persona del Cristo.

13. VINCENZO AVAGLIANO: Cristo crocifisso, dalla Crocifissione del Codice Vaticano Latino 5729 – 2009 – ferro sbalzato 

 Il significato teologico dell’iconografia del Christus Dolorosus che presenta il corpo appeso alla croce, senza alcun alito di vita, riguarda l’assoluta solidarietà del Figlio di Dio con il figlio dell’uomo, tanto da volerne condividerne la sofferenza e la morte, fino alla morte di croce sulla quale accetta di morire sentendosi abbandonato da tutti, perfino dal Padre, perché "Colui che non aveva conosciuto peccato, Dio lo trattò da peccato in nostro favore, perché noi potessimo diventare per mezzo di lui giustizia di Dio"[17].

   Nella seconda, essenziale croce in legno, la severità delle linee verticali della noce manzonia esprime la tragica solennità dell’evento. In queste raffigurazioni la sagoma del Redentore è molto vicina a quella dell’orante – ed esprime il valore di intercessione universale del suo sacrificio salvifico[18]. Tale gesto della preghiera di intercessione è anche il gesto amoroso e accogliente della protezione e nel contempo della difesa: le braccia di Cristo sulla croce sembrano tendersi verso l’umanità come braccia protettrici.

 

14. VINCENZO AVAGLIANO: Cristo crocifisso, dalla Crocifissione del Codice Vaticano Latino 5729 – 2009 – legno scolpito

    Ricordiamo l’accorata esclamazione di Gesù: “Gerusalemme, Gerusalemme, tu che uccidi i profeti e lapidi quelli che sono stati mandati a te, quante volte ho voluto raccogliere i tuoi figli, come una chioccia raccoglie i suoi pulcini sotto le ali, e voi non avete voluto”[19]. Mosè nel cantico di addio descriveva il rapporto che lega JHWH a Israele con un’immagine che mette in luce la valenza esclusiva e potente dell’amore paterno ed insieme materno di Dio: “Come un’aquila che veglia la sua nidiata, / che vola sopra i suoi nati, / egli spiegò le ali e lo prese, / lo sollevò sulle sue ali”[20] ; ed il Salmista così prega cantando: “Proteggimi all’ombra delle tue ali” Sal 17, 8, ricordando: “Quanto è preziosa la tua grazia, o Dio! / Si rifugiano gli uomini all’ombra delle tue ali”[21].

 Nella terza croce, ancora in legno, la sperimentazione mette in atto una plasticità materica trasmessa dal colore impastato con il cemento.

  15. VINCENZO AVAGLIANO: Cristo crocifisso, dalla Crocifissione del Codice Vaticano Latino 5729 – 2009 – legno scolpito e dipinto, cemento

   Ruolo cromatico fondamentale possiede il verde del fondo, che si illumina con il cromatismo complementare del rosso della cornice e della croce interna all’aureola e rende ancora  più evidente il sangue che sgorga dalle trafitture dei chiodi e della lancia, segno apologetico della realtà dell’incarnazione del Verbo. La composizione esprime in maniera efficace la verità delle sofferenze di Cristo, vero uomo. La dignità e la dolcezza con le quali rivolge  un amareggiato, intenso sguardo interrogativo a colui che, simbolo di tutti gli uomini, gli sta trafiggendo il costato,  rinviano all’amorosa obbedienza verso il disegno salvifico del Padre, che passa attraverso la sua Passione.

   Nell’iconografia del Patiens si manifesta parimenti la divinità di Cristo: la si rinviene qui anche nella giovinezza del viso e del corpo, secondo uno stato ideale di giovinezza del Christus puer che allude alla dimensione di eternità che gli è propria[22]. Così viene rappresentato sulla succitata porta lignea della basilica di S. Sabina  a Roma ed in una delle ampolle palestinesi di Monza, delle quali abbiamo già parlato.

   La classe del prof. Avagliano ispirandosi all'immagine della Bibbia di Ripoll ha realizzato sei crocifissi, dei quali quattro in legno e, guidata dal prof. Umberto Aliberti, due in ceramica.

 

16. UMBERTO ALIBERTI E ALLIEVI: Cristo crocifisso, dalla Crocifissione del Codice Vaticano Latino 5729 – (part.)2009 – ceramica policroma

  Colpisce, tra le altre, una croce in ceramica di grande semplicità e potenza espressiva, nei solchi che incidono profondamente i tratti somatici del Cristo, le pieghe sintetiche della barba. La figura presenta un cromatismo dai toni terrosi che diventa luminoso e cangiante nell’uso sapiente della cristallina, quasi a significare l’approssimarsi dello status di corpo glorioso. 

   Il Corso Serale ha realizzato un crocifisso in plexiglass dai contenuti interventi cromatici: la sua trasparenza dialoga con la sottostante croce in ceramica, il cui biancore è attraversato dai bagliori ocracei e dorati delle decorazioni a motivi bizantineggianti. 

   Ancora, il Corso Serale ha presentato una Croce dipinta in ceramica policroma su pietra lavica. Grazie alla diversità degli smalti che restituiscono una differente matericità, dal verde fondo poroso emerge il corpo dalla pelle marmorea, levigata e lucida. La scelta della pietra lavica quale supporto dichiara la vicinanza al territorio e vuole evocare la terribilità del Vesuvio, in aderenza con la drammaticità dell’Evento.

 

 17.  ALLIEVI CORSO SERALE: Cristo crocifisso, dalla Crocifissione del Codice Vaticano Latino 5729 – 2009 – ceramica policroma e pietra avica 

   La prof.ssa Francesca Poto ha creato due incisioni policrome: sul globo terrestre si leva il legno su cui è crocifisso il Cristo Signore. In primo piano, si impennano i cavalli e fremono i buoi, associati al Sole ed alla Luna, gli astri la cui presenza nei clipei sovrastanti le braccia della Croce simboleggiano la partecipazione e lo sconvolgimento di tutta la Creazione che partecipa e si commuove dinanzi alla crocifissione del suo Creatore per mezzo del quale “sono state create tutte le cose, quelle nei cieli e quelle sulla terra”[23].

 

18. FRANCESCA POTO: Cristo crocifisso, dalla Crocifissione del Codice Vaticano Latino 5729 – 2009 – incisione

  Di solito sopra i bracci della croce si trovano tradizionalmente le personifi-cazioni del Sole e della Luna, ad indicare la commossa partecipazione del Creato di fronte al Dramma in atto.

 Così i simboli astrali del sole e della luna sono presenti già nei rilievi delle ampolle con la raffigurazione dell’Anástasis e della Crocifissione, conservate nel Museo del Duomo di Monza (sec. VI): i simboli del sole e della luna, desunti dall’iconografia non cristiana, sono disposti simmetricamente ai lati del capo del Crocifisso nella chiesa romana di S. Maria Antiqua, cappella dei SS. Quirico e Giuditta, a garantire il valore perenne e cosmico del sacrificio della Croce.

   Le suddette personificazioni, derivanti dai culti astrali antichissimi della Terra dei due Fiumi e del Mediterraneo, erano in seguito penetrate nell’iconografia principesca come immagine dell’aeternitas del monarca divinizzato e di lì, poi, del personaggio che inquadrano[24]. L’Autore della miniatura di Ripoll mostra una vasta conoscenza non soltanto della cultura cristiana, ma anche della cultura classica. La mitologia voleva il carro di Elios-Apollo trainato da cavalli di fuoco che alludevano al ruggente splendore del sole.  

   Ad Artemide-Diana, dea dell’argentea luna, erano associati i buoi che sul capo portavano la mezzaluna configurata dalle loro candide corna. Il Miniaturista raffigura così nel clipeo del sole, in primo piano, quattro rossi cavalli in corsa, ai quali fanno da contrappunto nel clipeo della luna quattro bianchi buoi dalle candide corna a mezzaluna. 

   Alle spalle degli animali, le personificazioni del Sole e della Luna a figura intera, riconoscibili rispettivamente dal raggio di fuoco che esce dai capelli fulvi del Sole e dalla bianca mezzaluna seminascosta nei capelli della Luna, la cui tunica ha il freddo colore del cielo. Entrambe le figure presentano una mano aperta e levata nell’antico segno del giuramento, che in questo caso attesta la divinità del Cristo crocifisso.

19. FRANCESCA POTO: Cristo crocifisso, dalla Crocifissione del Codice Vaticano Latino 5729 – 2009 – incisione

 

   La stessa mostra realizzata dal Liceo “Andrea Sabatini” di Salerno dedicata all’iconografia del Crocifisso, arricchita da altre opere, ha inaugurato il giorno … l’inizio dei Lunedì vincenziani a Dragonea, sulla Costiera amalfitana, nel Santuario di S. Vincenzo Ferreri, precisamente nell’Oratorio pertinente alla Confraternita del S. Rosario.

 La mostra di Dragonea ha visto l’attiva partecipazione dei fedeli del Santuario vincenziano i quali hanno arricchito l’iniziativa facendo esporre alcuni Crocifissi di loro proprietà che presentano l’iconografia del Christus Dolorosus. Tra le opere esposte, è presente anche il Crocifisso in argilla a cotto creato dall’artista benedettino, pittore e scultore, dom Raffaele Stramondo, inviato dall’Abate Benedetto Maria Chianetta  della Badia della SS.ma Trinità di Cava – sotto la cui protezione si trova il Santuario vincenziano. Si ricollega alla primitiva iconografia del Christus Triumphans un moderno Crocifisso in legno d’olivo: rappresenta il Signore Gesù  sulla croce vivo e splendente di divina potenza, vestito di una lunga tunica sacerdotale, le braccia aperte e levate, a ricordare che se non si crede nella sua risurrezione, “è vana la nostra predicazione ed è vana anche la vostra fede”[25.

 

 

Salerno, maggio 2009-marzo 2010   

 


Con preghiera di citare la fonte in caso di utilizzazione del testo per motivi di studio.

 

 

 

 

  Adelaide Trabucco, Vincenzo Avagliano: Mostra La Croce ritrovata - maggio 2009 - Liceo Artistico "Andrea Sabatini", Salerno   

 

 
          [1] Cfr. A. CONTESSA, 2003; J. Pijoán 1911-1912; W. Neuss, 1912, 1922.

   [2] Cfr. A. M. MUNDÒ, Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana 2002.

   3 Cfr. A. GRABAR, Martyrium, Paris 1946, vol. II

   [4] Ivi.    

 [ 5] P. N. EVDOKIMOV, Teologia della bellezza. L’arte dell’icona, Milano 1990    

   [6] Ivi 

   7]  Preghiera eucaristica II 

   [8] Cfr. A. GRABAR, Les Ampoules de Terre Sainte 'Monza-Bobbio', Paris 1958.

   9] Cfr. É. COCHE de LA FERTÉ, Ampolla, E A E, Treccani, 1958; V. ASCANI, Ampolla, E A M, Treccani,  1991.   

   [10] F. BISCONTI, Il patibolo e la tomba vuota, da “L’Osservatore Romano”, 6-7 aprile 2009. 

   [11]  Cfr. A. GRABAR, Martyrium, op. cit.

   [12] Cfr. G. FURLANI, Rabbula, E I, Treccani, 1935; M. DELLA VALLE, Rabbula, E A M, Treccani, 1991 

   13 Eb 4, 14

   [14] Cfr. A. M. AMMAN, La pittura sacra bizantina, Pontificium Institutum Orientalium Studium, Roma 1957.

   [15]  Cfr. A. GRABAR, Les voies de la création en iconographie chrétienne. Antiquité et Moyen Age, Paris 1968.

   [16] Cfr. A. GRABAR, Martyrium, op. cit.

   [17] Cor 5, 17-21

   [18] A. GRABAR, Martyrium, Paris 1946, vol. II

   [19] Mt 23,37 – trad. CEI 2009

   [20] Dt 32, 11 NOTA

   [21] Sal 36, 8

    [22] A. GRABAR, Martyrium, Paris 1946, vol. II

   [23] Col 1, 16

     [24] Cfr. A. GRABAR, Martyrium, Paris 1946, vol. II; H. e M. SCHMIDT,  Roma 1988.

   [25] 1 Cor 15,14

 


 

 


  

 

 

 


   

 

 

 

  

 

 

  

 

 

Pubblicato in Opere
Martedì, 09 Ottobre 2012 17:22

La Madonna della Misericordia o del Mantello

All'Anno Mariano Diocesano celebrato nella Diocesi di Salernoio-Campagna-Acerno nel 1996 risalgono una serie di ricerche svolte da Adelaide Trabucco sull'iconografia mariana. L’articolo presentato su “Agire” (sabato, 22 giugno 1996) viene in questa sede arricchito da uno studio iconografico in cui, seguendo per la ricerca un'impostazione ecumenica, rileva come le invenzioni iconografiche siano numerose e diversificate sia nell'Oriente sia nell'Occidente. Ecco allora che viene a coniugarsi l’espressione dell’appellativo Madonna del mantello con titoli diversi ma di analogo significato presenti nella tradizione occidentale e orientale, quali la Madonna della Misericordia, la Madonna della Divina Provvidenza; la Blachernitissa o Madre di Dio di Blacherne, antico santuario mariano di Costantinopoli; la Theotokos Platytera, la Madre di Dio più vasta dei Cieli;  la Protezione della Madre di Dio appellata anche Madre di Dio del Pokrov, la Santa Cintura che protegge come un manto i suoi fedeli che “sotto la sua protezione si rifugiano”.

   Il titolo investigato è antichissimo perché antichissima è l'idea di invocare la protezione della Vergine. Le sue origini sono rinvenibili nella più antica preghiera mariana conosciuta (II-III sec.): "Sotto la tua protezione cerchiamo rifugio, Santa Madre di Dio: "Sub tuum praesidium confugimus, Sancta Dei Genitrix, / nostras deprecationes ne despicias in necessitatibus, / sed a periculis cunctis libera nos, / o semper Virgo gloriosa ed benedicta”.

 

 

 

 

PIERO DELLA FRANCESCA: Madonna della Misericordia  - 1444-1464ca. - Pinacoteca Comunale di S. Sepolcro

 

 

 Con preghiera di citare la fonte in caso di utilizzazione del testo per motivi di studio. 

Pubblicato in Opere

 

 

Il quadro della Beata Vergine del Santo Rosario di Pompei e Serafini, dipinto da Adelaide Trabucco nel 2007, è stato un atto di devozione per una grazia ricevuta attraverso la preziosa intercessione della Beata Vergine del Santo Rosario venerarata nel Santuario di Pompei, nella consapevolezza che altre grazie, tanto più numerose, le saranno palesi soltanto in Cielo.   

 

   All'usuale iconografia, l'Autrice ha voluto aggiungere l'immagine dei Serafini come presenza invisibile ma reale che di certo circonda la Madre con il Figlio Divino, e che si dispiega esplicitamente o implicitamente nell'iconografia rosariana nel corso dei secoli.    

 

 

Iconografia rosariana

 

di Adelaide Trabucco  

 

 

 

 

 

La preghiera del Rosario nasce nel XII secolo quando i monaci Cistercensi, partendo dalla tradizione di dedicare alla Vergine una corona di rose, elaborarono una speciale ghirlanda: una preghiera che chiamarono appunto Rosario, paragonata ad una mistica corona di rose offerte alla Madonna. Questa devozione viene perfezionata e resa popolare da san Domenico il quale, secondo l’asserzione del Beato Alano de la Roche, nel 1214 riceve il primo rosario dalla Vergine Maria che lo indica come rimedio per la conversione dei non credenti, per la salvezza dei peccatori e per sconfiggere l’eresia albigese. Fiorisce così la devozione del S. Rosario: suoi propagatori sono i Domenicani che  con la  loro predicazione lo divulgano nell’intera Europa e che hanno inoltre il merito di creare le Confraternite del Rosario.

Il frate domenicano Giovanni da Fiesole, al secolo Guido di Pietro, era un grande innamorato della Beata Vergine Maria e del Rosario. La tradizione narra che, giovane frate, ritornava una sera al convento, recitando il Rosario. Attraversava la campagna. Gli apparve la Regina del Cielo; tanti Angeli le stavano vicino, cantando ed intrecciando una corona di rose. Il frate interruppe la recita del Rosario per contemplare quella scena di Paradiso. Gli Angeli interruppero pure il canto e lasciarono incompiuta la corona di rose. Sorpreso, il Beato Angelico ripigliò la preghiera e gli Angeli ricominciarono a cantare. Ad ogni Ave Maria, una nuova rosa veniva inserita nella corona. Terminato il Rosario, il serto di rose fu presentato dagli Angeli a Maria. Il frate non dimenticò più la visione. Si sforzò di riprodurla in pittura. Trascorse la vita nella preghiera e nel lavoro, lasciando una grande quantità di quadri, rappresentanti la Madonna e gli Angeli.

Venne chiamato Beato Angelico per la sua capacità di ricreare l’atmosfera angelica che circondava i soggetti religiosi che ritraeva nei suoi dipinti, rinnovando nel Quattrocento l’arte sacra secondo la nascente visione rinascimentale alla quale aderì in modo sublime in termini di luce, di colore e di spirituale grazia. Negli ultimi istanti della vita, mirò a lungo in alto, quasi trasfigurandosi in viso per l'emozione; poi esclamò: “La Madonna è molto più bella di quanto io l'abbia dipinta!” E spirò. E’ significativo che  fra Giovanni  è l’unico artista, in tutta la storia della Chiesa, nel cui processo canonico  non sono stati allegati scritti  teologici o spirituali ma il catalogo completo dei suoi capolavori di arte e di fede. Sempre  Giovanni Paolo II il 18 febbraio 1984 lo ha proclamato Patrono Universale degli Artisti. 

 


BEATO ANGELICO: Madonna col Bambino, Angeli e Santi - (part.) - 1448 - Galleria Nazionale dell'Umbria, Perugia 

 

L’orazione del Rosario riceve il suo battesimo ufficiale nel 1569 ad opera del papa san Pio V che emana una specifica bolla, Consueverunt Romani Pontifices. In concomitanza con la struttura definitiva della preghiera, si origina l’iconografia riguardante la Beata Vergine del Santo Rosario della quale la prima rappresentazione conosciuta è la silografia che orna il frontespizio della seconda edizione dello Statuto (1477) riguardante la prima Confraternita del Rosario eretta a Strasburgo nel 1475 dal frate Giacomo Sprenger priore dei domenicani di Colonia. La città nel 1474 aveva scongiurato il pericolo della guerra grazie alla protezione della Vergine invocata, su ispirazione di Sprenger, mediante il Rosario. Superato il pericolo della guerra, viene istituita la Confraternita: i primi iscritti sono l’imperatore Federico III e il legato pontificio, vescovo Alessandro Malatesta.

 

 

Sono i personaggi raffigurati nella silografia: la Beata Vergine in trono col Bambino, entrambi ritratti mentre porgono corone di rose. Il Bambino si volge al vescovo Malatesta, davanti al quale è inginocchiato il priore Sprenger, la Vergine si rivolge a Federico III, imperatore del Sacro Romano Impero, ai piedi del quale è inginocchiata la moglie Eleonora d’Aviz, infanta del re di Portogallo, Edoardo.

 

 

Alla prima Confraternita istituita in Italia dal domenicano tedesco Giovanni di Erfordia, nella chiesa di S. Domenico di Castello a Venezia, risale un secondo prototipo di iconografia del Rosario: la copertina dello Statuto presenta una xilografia stampata verso il 1480 - attualmente al Museo Nazionale Germanico di Norimberga - che vede la Beata Vergine in piedi, senza il Bambino Gesù, le mani giunte in preghiera., circondata da Angeli in volo, mentre ai suoi piedi sono inginocchiati il frate Giovanni di Erfordia e un laico elegantemente vestito dalle cui mani giunte pende la corona del Rosario – forse Leonhard Vilt, fondatore della confraternita del Rosario a Venezia.
 

ALBRECHT DÜRER: La Festa del Rosario - 1506 - Narodni Galerie, Praga

 
La Festa del Rosario, celebre dipinto di Dürer, si ispira all’iconografia della Confraternita di Colonia e ad altri precedenti iconografici legati a questo tipo di devozione come i Rosenkranzbild (immagini del Rosario) in cui la Madonna è raffigurata nell'atto di distribuire serti di rose bianche e rosse al popolo in venerazione, presenti i membri di ogni classe sociale. In Dürer le supreme autorità della terra, dal Pontefice Sisto IV all'Imperatore Federico III (che l'Artista ritrasse con le sembianzr del figlio Massimiliano I), al cospetto della Vergine hanno deposto in terra rispettivamente il triregno e la corona imperiale, chinandosi con devozione per ricevere le ghirlande di rose che la Vergine e il Figlio pongono sul loro capo: le uniche corone ammesse sono quelle del Rosario distribuite dalla Beata Vergine e dal Bambino, aiutati da san Domenico e dagli Angeli, a tutti i presenti, dall'Imperatore al soldato, dal Patriarca di Venezia, al Cappellano, ai semplici fedeli. Non è un caso che tutti i devoti del Rosario appartengano alle varie classi sociali: all'interno del popolare scritto devozionale Il Rosario della gloriosa Vergine Maria, nel capitolo "Ammonitione per entrare nella fraternità", si sottolinea che la Confraternita del Rosario "abbraccia tutti, cioè ricchi e poveri, huomini e donne, signori, prelati, re et principi, et niuno è escluso" (dall'edizione di Venezia, presso Gio. Antonio Bertano, 1587). L'opera è scritta a Venezia nel 1521 dal domenicano Alberto di Castello al quale si deve anche la struttura del Rosario di 15 Pater noster e di 150 Ave Maria, semplificata rispetto alla complessità della precedente configurazione, e codificata nella bolla Consueverunt Romani Pontifices, datata 12 settembre 1569 - dove per la prima volta si trova una precisazione spirituale di fondamentale importanza, ovvero che la meditazione dei Misteri del Rosario (non la meccanica ripetizione delle preci) è la condizione necessaria per ottenere le indulgenze.

 

 

ANTOON van DYCK: La Madonna del Rosario con san Domenico e santa Caterina da Siena e i santi Vincenzo Ferreri, Oliva, Ninfa, Agata, Cristina e Rosalia  - 1625-1627 - Palermo, Oratorio di S. Domenico, Presbiterio

 

 Gli artisti italiani predilessero una diversa iconografia che valorizzava il ruolo svolto da san Domenico: la Vergine, su una nuvola, si mostra a san Domenico inginocchiato e gli porge la mistica corona, come nella suggestiva pala d’altare di Antoon van Dyck commissionata in occasione della peste che aveva colpito Palermo nel 1624, e consegnata nel 1628. Il dipinto raffigura la Madonna del Rosario con san Domenico e santa Caterina da Siena e i santi Vincenzo Ferreri, Oliva, Ninfa, Agata,Cristina e Rosalia, e fu realizzato per volere della Compagnia della Madonna del Rosario, che nel 1574 aveva fatto edificare il mirabile Oratorio del Rosario di S. Domenico accanto all'omonima chiesa.


 ADELAIDE TRABUCCO: Madonna del S. Rosario di Pompei e Serafini. San Domenico - ( part.) - 2007 

 

 

L'iconografia della pittura italiana privilegiò anche un altro schema iconografico che presenta la Beata Vergine in trono con il Bambino sul braccio destro: la Madre di Dio dona il Rosario a santa Caterina, il Figlio lo porge a san Domenico. Lo schema nasce nell'ambito dei Domenicani del Convento di Castello a Venezia - un'immagine si trova nella succitata opera di Alberto di Castello - e su di esso si fonda l'iconografia della Vergine del Rosario di Pompei (Cfr. Gilles Gérard Meersseman, Ordo Fraternitatis. Confraternite e pietà dei laici nel Medioevo, 3 voll., Herder, Roma 1977, vol. 3, pp. 1163-1218). 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

ADELAIDE TRABUCCO: Madonna del S. Rosario di Pompei e Serafini. Santa Caterina - (part.) - 2007  



 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

                                                                                                                                                                                               

                                                                                                                           

La preghiera del Rosario riceve un grande impulso dalla vittoria di Lepanto da parte della  flotta cristiana partita per far fronte ai Turchi che minacciavano l’integrità e l’identità territoriale, culturale e spirituale dell’Europa. Il pontefice san Pio V si adoperò in tutti i modi per unire i cristiani in una Lega. Così l'imperatore, il granduca di Toscana, Venezia, l'Ordine di Malta e parecchi principi italiani armarono una flotta. La Lega Santa partì dal porto di Messina il 7 ottobre 1571 verso le 12 del mattino e in vista della flotta turca (nel golfo di Patrasso, nell’area denominata Lepanto) su ogni nave fu celebrata la Messa, mentre i frati Francescani, Domenicani e Gesuiti a prora delle galere tenevano i crocefissi alzati e benedicevano i soldati. Le fonti storiche riportano che anche il Papa a quell’ora si raccoglieva in preghiera. La feroce battaglia durò cinque ore e costò la vita a circa 8.000 cristiani, consentendo la liberazione di 15.000 schiavi cristiani e segnando la fine della supremazia turca nel Mediterraneo.

 

 


 PAOLO VERONESE: Allegoria della battaglia di Lepanto - 1572 - Gallerie dell'Accademia, Venezia  

Paolo Veronese dedicò alla battaglia di Lepanto due rappresentazioni, nelle quali si ritrova il suo specifico cromatismo luminoso e intenso. Un’opera si trova nel Palazzo Ducale, Sala del Collegio ed è un quadro votivo, denominato Sebastiano Venier ringrazia il Salvatore per la vittoria di Lepanto, proposto al concorso ufficiale istituito dalla Repubblica di Venezia nel 1571 per la celebrazione della battaglia di Lepanto: in alto è raffigurato Cristo imperator mundi nella gloria celeste, ai suoi piedi in adorazione Sebastiano Venier, che diverrà doge di Venezia, e Agostino Barbarigo. Lontana strutturalmente è l'Allegoria della battaglia di Lepanto - appellata anche La Vergine accoglie le suppliche dei Cristiani e permette la Vittoria di Lepanto 7 ottobre 1571. La tela rappresenta due scene ben distinte ma fortemente collegate fra loro. Nello spatium coeli la personificazione di Venezia (o della Fede) appare avvolta in un candido manto mentre viene presentata alla Madonna.s L'accompagnano i santi Pietro, Rocco, Giustina e Marco. In secondo piano, sempre nella zona superiore, si trova una schiera di Angeli. Nello spatium terrae viene raffigurata la battaglia navale di Lepanto.

 

San Pio V, che aveva ordinato la recita del Rosario in tutta la Cristianità, il 7 ottobre vide soprannaturalmente la vittoria prima ancora che gli ambasciatori trasmettessero la notizia a lui e a tutta Europa – la notizia giunse a Roma per via ‘ordinaria’ il 21 ottobre -  e attribuì la vittoria a “Maria aiuto dei cristiani”, stabilendo che il 7 ottobre fosse commemorata S. Maria della Vittoria. Un dipinto di Lazzaro Baldi, datato 1673 e conservato nel Collegio Ghislieri di Pavia dove san Pio V aveva insegnato teologia, raffigura san Pio V mentre ha la visione della battaglia di Lepanto.

   Papa Gregorio XIII in seguito istituì definitivamente il giorno 7 ottobre in onore della Madonna del Rosario. In tutta Europa le nazioni festeggiarono l’evento, basti pensare che la regina Elisabetta I d’Inghilterra, benché scomunicata dal pontefice, considerò Lepanto un trionfo dell’intera cristianità, una garanzia di sopravvivenza per i valori che reggevano l’Europa e ordinò alla chiesa Anglicana di indire cerimonie di ringraziamento a Dio. A Venezia la vittoria fu celebrata intonando il Te Deum di ringraziamento. Il Senato Veneto, che pure era composto da uomini fieri e addestrati a sfidare i più gravi pericoli in mare e in terra, attribuì alla Madre di Dio il merito principale della vittoria e sul quadro fatto dipingere nella sala delle sue adunanze fece scrivere queste parole: “Non virtus, non arma, non duces, sed Maria Rosarii, victores nos fecit”, ovvero, “Non il valore, non le armi, non i condottieri, ma la Madonna del Rosario ci ha fatto vincitori”.

 

Degno di attenzione è il dipinto di Grazio Cossali, S. Pio V attribuisce alla Madonna del Rosario il merito della vittoria di Lepanto (1597, Chiesa di Santa Croce di Bosco Marengo, vicino Alessandria). Nello spatium coeli la Beata Vergine dona il Rosario a san Domenico, mentre il Bambino lo consegna  a santa Caterina che gli indica il luogo della battaglia di Lepanto. Nello spatium terrae san Pio V si rivolge con lo sguardo allo spettatore e con la mano gli mostra i personaggi celesti, veri artefici della vittoria. Alla sinistra del pontefice si scorge suo nipote, il cardinale Michele Bonelli che aveva guidato i negoziati per costituire la lega delle nazioni cristiane. Alla destra di san Pio V sono raffigurati in atteggiamento di preghiera l’imperatore Filippo II e il doge Alvise I Mocenigo. In molti quadri dipinti dopo la battaglia di Lepanto, difatti, compaiono, insieme con la Madre di Dio ed il Bambino Gesù, a san Domenico e santa Caterina da Siena,  anche gli artefici della Lega Santa contro i turchi e della vittoria di Lepanto: san Pio V, l’imperatore Filippo II, Don Juan d’Austria, fratellastro dell’Imperatore e comandante della flotta cristiana, Anna d’Austria, consorte dell’Imperatore ed altri protagonisti storicamente individuabili. Accanto ad essi vengono raffigurati anonimi gentiluomini, dame, suore, religiosi, contadini, popolani, tutti accumunati dalla preghiera-azione del Rosario. 

 

 


GIOVAN BATTISTA SALVI detto IL SASSOFERRATO: Madonna del Rosario con san Domenico e santa Caterina da Siena - 1643 - Basilica di S. Sabina, Cappella di santa Caterina da Siena, Roma

 A partire dalla prima metà del XVII secolo, l’iconografia del Rosario non mostra più con frequenza i personaggi evocanti la vittoria di Lepanto, ma si presenta nello schema piramidale che vede all’apice la Beata Vergine con il Bambino, e in basso san Domenico e santa Caterina, iconografia alla quale si riferisce anche l’artista che dipinse il famoso quadro della Beata Vergine di Pompei, ispirandosi molto probabilmente alla Vergine del Rosario realizzata nel 1643 da Giovanbattista Salvi detto il Sassoferrato, e conservato nella basilica paleocristiana di S. Sabina a Roma. Il capolavoro del Sassoferrato associa l'armoniosa serenità della Vergine, figura di atmosfera raffaellesca, con l'emotivo, vibrante dinamismo di santa Caterina, che anticipa la santa Teresa d'Avila del Bernini nella Cappella Cornaro in S. Maria della Vittoria.

 

 

Descrive la vicenda straordinaria del beato Bartolo Longo l’Arcivescovo di Pompei Carlo Liberati: «Ci fu un uomo mandato da Dio in questa valle: si chiamava Bartolo Longo. Veniva dalle Puglie. Correva l’anno del Signore 1872. I cattivi Maestri del primo Ottocento l’avevano fatto smarrire sui vicoli ciechi dell’agnosticismo, del razionalismo, dell’ateismo, nonostante avesse ricevuto una buona educazione religiosa. Ma due angeli, il Prof. Pepe, laico, e il P. Radente, domenicano, e una donna eccezionale, oggi Beata, Caterina Volpicelli, lo ricondussero sulle vie del Signore e gli restituirono la gioia di vivere. Qui a Pompei, in un non precisato giorno dell’ottobre 1872, attraversando i campi della Contessa Farnararo De Fusco che lo aveva chiamato ad amministrare, una voce misteriosa gli si fece sentire dal profondo dell’intelligenza, della coscienza e del cuore e gli disse: “ Se cerchi salvezza, propaga il Rosario. È promessa di Maria. Chi propaga il Rosario è salvo!” La campana di mezzogiorno suonava l’Angelus Domini. Di chi era la voce? Gli aveva parlato la Vergine Maria. Dopo un certo smarrimento e la preghiera sulla nuda terra, riprese il cammino. Ma era diventato un altro: come Paolo sulla via di Damasco. La Madre del Signore e nostra l’aveva atteso e trasformato. Da quel momento e dall’anno 1875 quando la Provvidenza gli fece pervenire questa effigie della SS.ma Vergine del S. Rosario ora venerata in tutto il mondo, qui sbocciarono miracoli da non potersi contare come frutti copiosi dell’albero della fede. Nacquero prodigi come sbocciano primule, ciclamini, iris nel silenzio del bosco» (Saluto di S. E. mons. Carlo Liberati Arcivescovo Prelato di Pompei al Santo Padre Benedetto XVI - Pompei, 19 ottobre 2008).   

   Il beato Bartolo Longo cercava un’immagine della Madonna del Rosario dinanzi alla quale la nascente Confraternita di Pompei si soffermasse in meditazione durante la preghiera. È noto che quando il 13 novembre 1875 il beato Bartolo Longo vide il quadro presso il Conservatorio del Rosario dov’era la proprietaria, sr Maria Concetta de Litala, rimase esterrefatto per la bruttezza del dipinto. È altrettanto noto che, non potendo fare altrimenti per la mancanza di tempo e di denaro, fece ospitare la tela sul barroccio di un carrettiere che ritornava a Pompei portando il letame delle stalle di Napoli da vendere come concime ai contadini della Valle di Pompei. Al riguardo possiamo commentare che la kenosis della Madre per la nostra salvezza non fu inferiore a quella del Figlio.   Le condizioni estetiche del dipinto richiesero l’intervento di numerosi restauri prima di poterlo esporre alla venerazione dei fedeli. I ripristini riscoprirono anche l’originaria immagine di santa Caterina da Siena, nascosta dietro le sembianze di santa Rosa da Lima, canonizzata alla fine del secolo XVII, epoca a cui si fa risalire la realizzazione del quadro. Evidentemente la popolarità della santa peruviana suggerì un cambiamento all’artista riguardo la beata da raffigurare.

 

 


 

Quando, dopo il restauro, il quadro venne esposto alla venerazione si osservò da parte dei fedeli e del beato Bartolo Longo un graduale, progressivo ingentilimento dei lineamenti della Beata Vergine. Nella Storia del Santuario scrive il Beato: “Da quel giorno cominciò nella  fisionomia della Celeste Regina a ravvisarsi una bellezza, una maestà e una confidenziale dolcezza, che non si ravvisavano innanzi. […] napoletani e forestieri i quali qui pervengono ogni giorno, riconoscono in questa Immagine qualche cosa che attira ad ammirarla, non per il magistero di arte, non essendo questa certamente una delle Vergini di Raffaello, ma sì invece per la forza arcana che s’impone, e trae, quasi senza volerlo, ad inchinarsi a pregare”.

  

 

 

Sono innumerevoli le grazie ottenute per intercessione della Beata Vergine del Rosario, testimoniate sia da umili ex-voto di ringraziamento sia da pregiati doni. A proposito di questi ultimi, il beato Bartolo Longo scrive del cumulo di pietre preziose di grande valore che “ornano artisticamente la celestiale Immagine, e sono come tante voci di fedeli, che da ogni parte del mondo attestano le grazie della Vergine Santissima di Pompei”.

 


Le pietre preziose che ornavano il dipinto divennero così numerose da costituire un pericoloso sovraccarico per la tela, sollecitando da parte del vescovo Aurelio Signora la necessità di un restauro che ebbe luogo nel 1965 per opera  dei Benedettini Olivetani i quali dirigevano l’Istituto di Restauro del libro a Roma.

 Il primo intervento fu riportare il dipinto su una nuova tela, poiché quella primitiva risultava gravemente danneggiata dai fori realizzati per applicare le gemme. Successivamente si procedette a riprendere l’immagine originaria del quadro. Nel togliere i vari strati di colore, l’azzurro oltremare del manto della Madonna lasciò il posto a un bleu scuro a riflessi verdi, con orlatura d’oro ai lembi. Venne riscoperto il piede destro della Vergine Maria, prima nascosto dalla veste. Alla base del trono ai piedi della Madre di Dio apparve un libro, che potrebbe essere la Bibbia oppure più presumibilmente la Regola dell’Ordine Domenicano, come segno dell’affidamento alla Vergine del Rosario compiuto da parte di san Domenico e santa Caterina i quali pongono sotto la sua protezione l’Ordine (cfr. Salvatore Sorrentino, Iconografia del Rosario, “Il Rosario e la Nuova Pompei”, 2008-2009).

   A conclusione del restauro, il 23 aprile 1965 il pontefice Paolo VI incoronò nella basilica di S. Pietro la celeste rappresentazione. Le corone della Madre e del Figlio e la corona di dodici stelle che circonda entrambi non furono poste sulla tela, bensì su una lastra trasparente di plexiglass collocata a qualche centimetro da essa.



 

La sacra immagine è ritornata a piazza S. Pietro per desiderio del beato Giovanni Paolo II che nel 2002 volle firmare accanto ad essa la Lettera Apostolica Rosarium Virginis Mariae nella quale introdusse i Misteri della Luce da lui elaborati, indicendo contestualmente l’Anno del Rosario.

   Era stato papa Giovanni Paolo II a beatificare il 26 ottobre 1980 Bartolo Longo che come pochi seppe rendere l’amore e la devozione verso la Beata Vergine del Rosario, un gesto concreto d’amore cristiano verso chi ha più bisogno: istituì per le opere sociali un orfanotrofio femminile, consegnandolo alla dedizione delle suore Domenicane Figlie del Rosario di Pompei, da lui fondate. Diede origine all’Istituto dei Figli dei Carcerati in controtendenza alle teorie di Cesare Lombroso, fondatore dell’Antropologia criminale, il quale, influenzato dal Positivismo francese e inglese, asseriva l’ereditarietà in senso deterministico dei comportamenti criminali che renderebbe impossibile l’adattamento alla società del soggetto che delinque e dei suoi discendenti, in un orizzonte dov’è assente sia la libertà umana sia la Grazia.  

 

Bartolo Longo chiamò a guidare l’Istituto i Fratelli delle Scuole Cristiane. Ancora, fondò nel 1884 il periodico “Il Rosario e la Nuova Pompei” che a tutt’oggi si stampa in centinaia di migliaia di copie, diffuse in tutto il mondo: la stampa era affidata alla tipografia da lui istituita per dare un avvenire ai suoi orfanelli. Diede vita associandoli al Santuario ad asili, scuole, ospizi per anziani, laboratori, l’ospedale, la Casa del pellegrino. Nel 1893 Bartolo Longo offrì al papa Leone XIII la proprietà del Santuario e di tutte le opere pompeiane; qualche anno più tardi rinunziò anche all’amministrazione che il papa aveva lasciato alla sua cura.

 

  

 

 L' Arcivescovo e Delegato Pontificio del Santuario, mons. Carlo Liberati, ha ripreso e attualizzato le opere sociali legate al Santuario mettendole in collegamento con le problematiche della società odierna, particolarmente con i drammi contemporanei legati all’infanzia  e all’adolescenza. Citiamo la  “Comunità Incontro” per il recupero dei tossicodipendenti e degli alcolizzati; il “Gruppo  Appartamento” costituito per l’ospitalità residenziale delle giovani prossime ai 18 anni o già maggiorenni; la “Casa Emmanuel” per l’accoglienza di gestanti, madri e bambini in difficoltà; le sedi del “Centro di Aiuto alla Vita” (CAV) che sostiene donne in difficoltà che decidono di non abortire, e che accolgono la vita nascente, con la certezza di essere poi dal CAV aiutate; il “Movimento per la Vita” (MpV) che anima e promuove iniziative per difendere la vita dal momento in cui sboccia nel grembo materno fino alla fine; il Centro di Ascolto “Myriam” aperto particolarmente all’accoglienza delle donne immigrate; la Casa famiglia “Giardino del Sorriso”, per l’accoglienza residenziale di minori fino a 10 anni: tutte opere fiorite intorno alla Basilica della Beata Vergine del Santo Rosario di cui è in atto il restauro. Tutte opere sorte nell’intento di continuare a  tradurre le parole del Vangelo in opere.

 

 


 

 

 

Con preghiera di citare la fonte in caso di utilizzazione del testo per motivi di studio.   

 

 

 

 

 

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